70 anni fa l'assassinio di Trotskij - ma l’idea non muore

Settant’anni fa Leon Trotskij, esule in Messico, veniva assassinato da un sicario di Stalin, Ramon Mercader. Dal ’29 al ’37 aveva vagato alla ricerca di un paese che gli concedesse asilo, sempre più braccato da Stalin con la collusione di paesi “democratici” come Francia e Norvegia.

La Pravda, coprendo le tracce dell’assassino – debitamente munito dalla Gpu di una lettera con cui spiegava il proprio gesto col disinganno di un partigiano della Quarta Internazionale – scrisse che Trotskij “avendo superato i limiti dell’avvilimento umano, è caduto nella sua stessa trappola ed è stato assassinato da uno dei suoi seguaci.” La caccia era finita, la lotta di idee no.

L’assassinio fu l’unico modo per far tacere Trotskij. Per far dimenticare cosa era stata la rivoluzione d’Ottobre, seppellita dallo stalinismo, e per impedire alle giovani generazioni in cerca di idee di respirare nuovamente quell’aria. Il lavoro degli assassini è stato seguito da decenni di ostracismo nei confronti di Trotskij: in Urss e nei paesi stalinisti le sue opere sono state proibite fino al crollo del 1989-1991, mentre nei paesi capitalisti con forti partiti comunisti filo-moscoviti o filo-cinesi la sua opera subiva una congiura del silenzio.

Anche in Italia, ancora negli anni ’70, uno degli esperti in “marxismo-leninismo” del Pci, Gruppi, curò per gli Editori Riuniti un libello dove assemblava caoticamente i giudizi negativi di Lenin su Trotskij. Altresì, poche calunnie sono state risparmiate a Trotskij: agente dei nazisti, criminale controrivoluzionario, complottatore contro l’Urss.

Tuttavia, nessuna delle potenze vincitrici consentì a Natalia Sedova, sua compagna, di contro-interrogare i gerarchi nazisti durante il processo di Norimberga a proposito della calunnia, lanciata contro suo marito nel primo processo di Mosca, di essere agente di Hitler.

Questo articolo non ripercorrerà la vita di Trotskij. Né risponderà a tutte le calunnie scritte su di lui, non ultime quelle della recente biografia di Service, ancora non disponibile in italiano.

Per un’opera completa sulla battaglia di Trotskij consigliamo la biografia scritta da Pierre Broué.

Ci concentreremo, per conto nostro, su tre punti: [1] il ruolo di Trotskij nella rivoluzione d’Ottobre e nei primi anni della Russia sovietica, per comprendere il suo rapporto con Lenin, [2] l’analisi della crisi mondiale seguita alla crisi del ’29 e la questione del programma di transizione, questione attuale nel pieno di un’altra crisi strutturale del capitalismo, e [3] la lotta per la Quarta Internazionale, rivelatrice della sua prospettiva internazionalista e di un compito ancora non realizzato dal movimento operaio.

I - Dall’Ottobre alla costruzione dello Stato operaio

Da quando Trotskij è rientrato in Russia dall’esilio non c’è stato miglior bolscevico di lui.” Lenin, 31 ottobre 1917

Nel febbraio ’17, lo sciopero delle operaie tessili di San Pietroburgo innescò una sollevazione di massa che abbatté lo Zar. Molti rivoluzionari furono colti di sorpresa. Anche Lenin. Ma i rivoluzionari russi, benché sul momento sorpresi, discutevano da 15 anni sulla natura della rivoluzione russa. E si erano divisi. Ad un estremo, i menscevichi, intrisi di una visione gradualista della storia, ritenevano che la Russia dovesse necessariamente seguire la strada “classica” della rivoluzione francese. La rivoluzione avrebbe avuto dunque un carattere democratico-borghese (riforma agraria, assemblea costituente) nonché la funzione di aprire una fase di sviluppo del capitalismo; la direzione della lotta, pertanto, spettava alla borghesia liberale con cui il movimento operaio non poteva che collaborare, in attesa che in un distinto futuro la classe lavoratrice, rinforzata, potesse prendere le redini della società. Per i menscevichi rivoluzione borghese e proletaria erano processi interamente separati. I bolscevichi, invece, concordavano coi menscevichi sul carattere borghese della rivoluzione ma erano convinti, anche per l’esperienza del 1905, che la borghesia liberale, legata ai latifondisti e timorosa di scatenare le forze sopite degli oppressi, fosse incapace di portarla fino in fondo. I bolscevichi, dunque, criticavano la collaborazione di classe sostenuta dai menscevichi e prospettavano una dittatura democratica degli operai e dei contadini che esaurisse, con metodi “giacobini”, tutti i compiti democratico-borghesi senza spingersi a trasformazioni socialiste. All’opposto dei menscevichi, Trotskij pensava che la forza egemone della rivoluzione fosse la classe operaia la quale però, in un paese arretrato a sviluppo diseguale, doveva saldare un’alleanza coi contadini, grande maggioranza della popolazione, e accollarsi nella prima fase le trasformazioni democratico-borghesi che la borghesia stessa, debole e ritardataria, non aveva realizzato. Per Trotskij la formula bolscevica non avrebbe corrisposto alla dinamica reale poiché la rivoluzione, di moto proprio, avrebbe teso a divenire socialista e proletaria, a mutare natura, in un breve lasso di tempo. Era la teoria della rivoluzione permanente. Ma la rivoluzione era permanente anche perché, iniziata nella Russia zarista, avrebbe potuto mantenersi soltanto se si fosse rapidamente estesa ad almeno un grande paese capitalista con tecnologia avanzata e classe lavoratrice potente.

I fatti mettono alla prova le teorie. Così, quando Lenin arrivò nella Russia scossa dalla tempesta rivoluzionaria, nelle sue Tesi d’aprile respinse qualsiasi forma di sostegno al governo provvisorio tra socialisti e liberali, chiamando alla lotta per il potere dei Soviet, la fondazione di una nuova Internazionale e l’abbandono del termine “socialdemocratico” – la “camicia sporca” – per adottare quello di “comunista”. Sin dal ritorno di Kamenev e Stalin nel marzo, il gruppo dirigente bolscevico, invece, era su una linea di conciliazione col Governo provvisorio senza distinguersi dal socialpatriottismo.

Lenin era diventato “trotskista”? Così dicevano i suoi detrattori, anche nel partito. Tuttavia, la battaglia di Lenin condotta a passo di carica contro numerosi “vecchi bolscevichi” conquistò in pochi giorni la gran maggioranza dei militanti alla conferenza del partito, soprattutto grazie ai quadri operai. Così, quando Trotskij arrivò a Pietrogrado nel maggio ’17, le posizioni dei due furono da subito coincidenti. Quando Trotskij si presentò per la prima volta al Soviet di Pietrogrado, di cui era stato presidente nel 1905, criticò la partecipazione di ministri socialisti al governo di coalizione, vera e propria trappola della borghesia. Il menscevico Ccheidze non gli riservò alcun tipo di accoglienza ufficiale ma i bolscevichi proposero la sua cooptazione nell’esecutivo del Soviet. Dopo la svolta impressa da Lenin, l’Organizzazione Interdistrettuale di Trotskij (i Mezhraiontsy), che contava 4mila membri ed un radicamento operaio a Pietrogrado, accelerò l’avvicinamento e la fusione coi bolscevichi, decisa a inizio luglio. Al I congresso Pan-russo dei Soviet, nel giugno ’17, la decina di delegati dell’Organizzazione Interdistrettuale fece blocco coi duecento bolscevichi. Trotskij ammonì i menscevichi ed i socialisti rivoluzionari che la loro politica volta a frenare la rivoluzione era destinata a farli cadere nelle braccia della controrivoluzione.

La nuova svolta si produsse a settembre con la resistenza proletaria armata al tentativo di colpo di Stato del generale monarchico Kornilov. I bolscevichi, perseguitati dal governo provvisorio, avevano guidato le masse alla vittoria. Il governo di Kerenskij, invece, aveva dimostrato pavidità, senza nemmeno dichiarare il generale fuorilegge. Raccogliendo i frutti della loro politica, i bolscevichi conquistarono la maggioranza nel Soviet di Pietrogrado. Perfettamente solidale con Lenin, Trotskij lottò per convincere il partito, specialmente la sua direzione, della svolta verso l’insurrezione. Lenin era drastico. Dall’esilio finlandese si pronunciò infatti contro la partecipazione bolscevica alla Conferenza democratica e per il boicottaggio del Pre-Parlamento, argomentando a favore dell’insurrezione per il potere dei Soviet prima che fosse troppo tardi. Questa posizione, che poi prevalse nel Comitato Centrale, era giudicata “avventurista” da Zinoviev e Kamenev. Vinte le oscillazioni nel partito, anche se l’opposizione di Zinoviev e Kamenev non cessò e si espresse pubblicamente, la preparazione dell’insurrezione passò al Comitato Militare Rivoluzionario, di cui Trotskij era presidente, che organizzò la presa del potere in coincidenza col II congresso pan-russo dei Soviet.

Nacque lo Stato proletario, fatto capitale nella storia dell’umanità. Dalla cella in cui l’aveva gettata il governo tedesco, Rosa Luxemburg, in attesa di quella rivoluzione che, ne era sicura, le avrebbe aperto presto le porte della prigione, scriveva che a Lenin e Trotskij va “l’immortale merito storico di aver marciato alla testa del proletariato internazionale, conquistando il potere politico, e ponendo praticamente il problema della realizzazione del socialismo”, ed aggiunse, all’unisono con l’internazionalismo bolscevico, che “in Russia il problema poteva soltanto essere posto. Non poteva essere risolto in Russia. Ed è in questo senso che l’avvenire appartiene dappertutto al “bolscevismo”.” Come ha affermato lo storico Rabinovich: “Se Trotskij non fosse stato presente a Pietrogrado e se non fosse intervenuto, assieme ad altri dirigenti locali sostanzialmente d’accordo con le posizioni di Lenin, ad adattare le direttive di Lenin alla situazione politica reale, è molto probabile che i bolscevichi si sarebbero politicamente suicidati.”

Se le Tesi di aprile di Lenin riarmarono il partito bolscevico, l’esistenza di quel partito e la sua crescita tumultuosa dimostrarono che Trotskij, il quale lo riconobbe, aveva avuto torto rispetto a Lenin nelle questioni organizzative, ed in particolare sulla costruzione del partito, a partire dal 1903. Le polemiche tra Lenin e Trotskij sulle questioni organizzative, superate nel ’17 nei fatti, sono state usate strumentalmente dagli stalinisti per gettare discredito sul “menscevico” Trotskij.

Rivoluzionario al potere

La storia di Trotskij tra il ’17 e l’inizio degli anni ’20 si fuse con quella del governo sovietico. Il suo primo incarico fu agli Esteri: “abbiamo bisogno di Trotskij per l’Europa”, disse Lenin. Il lavoro di quel ministero fu soprattutto propagandistico, almeno fino alle trattative di pace di Brest-Litovsk. L’iniziativa fu assunta principalmente dal marinaio Markin che, dopo aver sconfitto uno sciopero fomentato dagli alti funzionari, facendone arrestare un paio, ottenne la loro capitolazione e l’accesso ai documenti. Come ricordò Trotskij ne La mia vita:

“Markin diventò allora, per qualche tempo, non ufficialmente ministro degli Esteri. A modo suo aveva capito il funzionamento del commissariato e cominciò a far pulizia inesorabilmente tra i diplomatici illustri e ladri, riorganizzò gli uffici, sequestrò a favore dei senzatetto le merci venute dall’estero di contrabbando insieme con i bagagli dei diplomatici, tolse dalle casseforti del ministero i documenti segreti più istruttivi e li pubblicò sotto la sua responsabilità, con sue annotazioni, in forma di opuscoli.”

Ma lo scoglio della pace fu più complicato. I bolscevichi non avevano promesso una pace qualunque, bensì una pace “democratica”, ovvero senza annessioni né sanzioni, nel pieno rispetto del diritto dei popoli all’autodeterminazione. Le trincee russe erano vuote, i soldati aspettavano di essere richiamati a casa dal nuovo governo. Al tempo stesso, però, per non pregiudicare lo sviluppo della rivoluzione europea, i bolscevichi non volevano prestare il fianco alla propaganda delle potenze dell’Intesa, che dipingeva i bolscevichi come agenti della Germania.

Nelle trattative di pace a Brest-Litovsk con gli Imperi Centrali, i bolscevichi cercarono allora di guadagnare tempo, nella speranza di un precipitare del movimento di massa anche per effetto del loro lavoro di propaganda. La questione dei tempi nelle trattative divise il partito bolscevico. Lenin voleva stringere i tempi, timoroso del disastro che sarebbe seguito ad un’offensiva unilaterale della Germania. Firmare la pace sotto un attacco dilagante delle truppe austro-germaniche avrebbe potuto mettere a rischio la rivoluzione. Trotskij voleva invece tirare la corda, mostrare il più possibile ai lavoratori di Francia e Gran Bretagna che la Russia sovietica firmava una pace separata solo perché aggredita dalla Germania, ma al tempo stesso non riteneva realistiche le posizioni della “sinistra” di Bucharin favorevole ad una “guerra rivoluzionaria” contro la Germania. L’offensiva tedesca, senza sollevazioni in Europa, impose alla Russia sovietica condizioni più dure di quelle di Brest-Litovsk, con la perdita del 44% della popolazione e di un quarto del territorio dell’ex Impero.

Trotskij dedicò gli anni seguenti alla costruzione dell’Armata Rossa ed alla conduzione della guerra civile contro i Bianchi, appoggiati complessivamente da 19 eserciti stranieri, compresa l’Italia, presenti sul territorio dell’ex impero zarista. Privilegiando l’aspetto politico e di propaganda, l’Armata Rossa di Trotskij riuscì a motivare i propri soldati e a convincere anche gli strati più arretrati dei contadini russi a fidarsi dei rivoluzionari e a battersi a costo della propria vita per difendere la promessa di un mondo nuovo. Internazionalista, la propaganda dell’Armata Rossa contagiò anche i soldati dei paesi invasori, provocando per esempio lo straordinario ammutinamento della flotta francese di stanza sul Mar Nero. La vittoria nella guerra civile fu innanzitutto una vittoria politica, ottenuta dall’esercito meno esperto e peggio attrezzato. Una lezione ai “realisti” nostrani che, per giustificare Togliatti, sostengono che la rivoluzione in Italia nel ’45 fosse impossibile perché gli Alleati l’avrebbero schiacciata nel sangue.

Blocco con Lenin

La discussione sulla militarizzazione dei sindacati aveva messo in evidenza un ritardo di Trotskij nell’intravedere le deformazioni burocratiche dello Stato operaio, infestato dal peso conservatore dell’ex burocrazia zarista vestita di rosso. Lenin colse nel segno chiarendo che gli operai avevano bisogno di sindacati indipendenti dallo Stato precisamente per difendersi dallo Stato operaio stesso. Respingendo la visione per cui, in quel momento, i sindacati dovessero trasformarsi, come proponeva Trotskij, nell’apparato che “chiama le masse a collaborare alla produzione”, Lenin, il 30 dicembre ’20, scriveva: “Secondo lui [Trotskij] in uno Stato operaio la funzione dei sindacati non è difendere gli interessi materiali e spirituali della classe operaia. è un errore. Il compagno Trotskij parla di uno “Stato operaio”. Scusate ma questa è un’astrazione. […] Questo Stato non è completamente operaio. Ecco il punto. […] Il programma del nostro partito (…) mostra che il nostro Stato è uno Stato operaio con una deformazione burocratica.”

Questa intuizione di Lenin è la base per il successivo blocco contro la burocrazia stretto in segreto con Trotskij. I due avrebbero notato, in maniera indipendente l’uno dall’altro, che il problema riguardava anche la crescente fusione tra l’apparato statale e quello del partito. Nell’aprile ’22 l’elezione di Stalin, già capo dell’Ispezione Operaia e Contadina, a segretario generale del Comitato Centrale accentuò un processo già in atto di nomina dei responsabili di partito dall’alto e di accentramento amministrativo. La storia che iniziò allora tra Lenin e Trotskij è stata a lungo conosciuta soltanto dalla testimonianza di quest’ultimo. A partire dal ’56, poi, venne confermata dal rapporto Krusciov. Così Trotskij, nella sua autobiografia, ricordò un incontro del gennaio ’23: “Dopo breve riflessione, Lenin mi domandò a bruciapelo: “Lei mi propone dunque di iniziare la lotta non solo contro la burocrazia di Stato ma anche contro l’Ufficio organizzatore del Comitato Centrale? Io mi misi a ridere sorpreso. L’Ufficio organizzativo era l’anima dell’organizzazione staliniana. “Può darsi”. Ebbene, - continuò Lenin soddisfatto di aver definito l’essenza della questione – io le propongo un blocco contro la burocrazia in genere e, in particolare, contro l’ufficio organizzatore.”

La lotta dell’Opposizione di Sinistra dal ’23 fino all’uccisione nell’agosto ’41 degli ultimi oppositori, tra cui Rakovskij, fu la continuazione e traduzione pratica di quel blocco tra Lenin e Trotskij che non ebbe modo di andare oltre alcune discussioni ed un paio di battaglie (monopolio del commercio estero e questione georgiana). Ma, lo possiamo dire, il partito di Lenin restò fedele a se stesso anche dopo essere passato dalle prigioni zariste alla testa dello Stato sovietico e lottò sin da subito contro i “pericoli del potere”.

II - La crisi degli anni ’30: il mondo tra reazione e rivoluzione

Sin dallo scoppio della crisi economica mondiale nel 2008, molti commentatori hanno tracciato analogie tra la situazione odierna e gli anni Trenta. A sinistra è frequente considerare che la crisi economica profonda porti le masse popolari verso la destra e l’estrema destra, sull’onda della paura e del disorientamento. Valentino Parlato, dalle colonne de Il Manifesto, ha suggerito più volte questo legame quasi necessario. L’ascesa al potere di Hitler nel ’33 viene considerata prova inoppugnabile di ciò. Capita però anche che qualche neo-keynesiano osservi che alla crisi del ’29 si oppose anche la via riformista del New Deal rooseveltiano. E poi avanti di panegirico sul ruolo dello Stato e delle politiche di spesa per regolamentare la voracità dei mercati e rilanciare i consumi.

L’analisi di Trotskij fa piazza pulita di queste visioni di comodo. Innanzitutto perché inquadra, fin dal ’33, l’ascesa di Hitler e la sua ricerca dello “spazio vitale” per la Germania come frutto di un movimento storico oggettivo: le necessità insoddisfatte dell’imperialismo tedesco spingevano il mondo capitalista verso una seconda guerra mondiale per la spartizione del pianeta. Niente a che vedere con le analisi sciatte ma oggi molto in voga sull’Europa dei totalitarismi che affila le armi contro gli “agnelli sacrificali” delle democrazie, cioè la Gran Bretagna e la Francia allora dominatrici su buona parte del mondo coloniale. Trotskij, peraltro, spiegò che la politica economica di Roosevelt e quella di Hitler avevano più punti di contatto di quanto rivelassero le apparenze. Tutti e due risollevarono l’economia del loro paese con un rilancio in grande stile della spesa militare. Gli Usa, infatti, erano ripiombati in una pesante recessione economica già nel 1938. Soltanto la crescita esponenziale dell’industria bellica in vista della guerra imminente li tirò fuori da quelle secche. A differenza di Hitler, Roosevelt poté, secondo Trotskij, cooptare i vertici del movimento sindacale, e non distruggere ogni organizzazione indipendente dei lavoratori, a causa delle immense riserve di denaro accumulate dagli Usa, veri vincitori della Prima Guerra mondiale, che gli consentivano alcune riforme, in buona parte rimangiate durante la guerra.

In secondo luogo, l’analisi dei politici riformisti è viziata dal fatto di considerare le rivoluzioni come fenomeni che la storia non conoscerà mai più. Con questa mentalità, diventa quasi naturale cercare di cancellare o diluire il ricordo delle rivoluzioni passate. A partire dalla rivoluzione spagnola del ’31-’37 e dal movimento di occupazione delle fabbriche del ’36 in Francia. Trotskij dedicò molte delle sue energie all’analisi di quei due momenti cruciali.

La Spagna, particolarmente, fu per lui il paese a partire dal quale una rivoluzione vincente avrebbe potuto fermare la marcia della storia verso la guerra. Ma la politica dei Fronti Popolari, un’alleanza tra il movimento operaio e la borghesia liberale, sancita dal VII congresso dell’Internazionale Comunista, agì secondo Trotskij alla stregua di un “complotto per domare gli scioperi”, come scrisse in relazione alla Francia, e di un vero e proprio cappio al collo del proletariato in Spagna. Lì l’intervento di Mosca, appoggiandosi ai socialisti di destra ed al personale politico borghese rimasto nella Spagna repubblicana, frenò lo slancio di operai e contadini che, sconfiggendo in tre quarti della Spagna il golpe di Franco, avevano creato i loro organi di potere, dalle milizie alla collettivizzazione dell’industria e delle terre. La volontà di mantenere la lotta nei confini della legalità borghese, senza attentare al diritto di proprietà, frustrò profondamente l’entusiasmo e la partecipazione degli oppressi alla lotta “antifascista”, creando le condizioni per una vittoria di Franco. In Spagna, secondo Trotskij, l’Internazionale Comunista alle dipendenze della diplomazia di Stalin aveva per la prima volta, nei fatti, costituito un fattore controrivoluzionario cosciente. La paura di un Ottobre spagnolo dipendeva dagli effetti che ciò avrebbe generato, innanzitutto in Urss, dove avrebbe ridato fiducia alla classe lavoratrice e destabilizzato così il potere della burocrazia stalinista, la nuova casta di privilegiati usurpatrice dell’Ottobre russo. Ci sia dunque per messo di azzardare che una crisi economica strutturale come quella attraversata oggi dal capitalismo spinge la classe dominante ad indurire le sue forme di dominio ma, dialetticamente, trascinerà i lavoratori a radicalizzarsi finanche su posizione rivoluzionarie. Certo, il processo non sarà mai lineare e privo di contraddizioni. Ma l’uscita a destra dalla crisi non è scritta nelle stelle.

Il programma di transizione

Dopo la sconfitta tragica della rivoluzione spagnola, Trotskij non depose le armi. Preparandosi alla guerra ormai inevitabile, Trotskij accelerò i tempi per la fondazione della Quarta Internazionale. Voleva ardentemente che i rivoluzionari avessero una bandiera pulita sotto la quale raggrupparsi sin dall’inizio della guerra. Ed anche un’analisi della fase, un programma ed un metodo col quale intervenire nella lotta di classe. Da quest’insieme di esigenze nasce Il programma di transizione (1938), manifesto fondativo della Quarta Internazionale. Trotskij mise all’ordine del giorno il superamento della nefasta divisione tra programma minimo (le riforme) e programma massimo (il comunismo), tipica della socialdemocrazia. Era un ricollegarsi alla tradizione marxista. Anche nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, infatti, i due autori abbozzarono un programma di dieci punti per mobilitare le masse “sulla strada della rivoluzione operaia”, precisando che tali misure “appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell’economia, ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell’intero sistema di produzione.” Tali punti prevedevano la confisca della proprietà fondiaria e l’accentramento del credito in una sola Banca di Stato, ma anche misure ben più limitate come l’istruzione pubblica e gratuita o l’eliminazione del lavoro minorile. L’idea di fondo era che le masse si muovono soltanto su obiettivi comprensibili che abbiano al tempo stesso un carattere di rottura con gli equilibri di classe esistenti.

La stessa preparazione dell’Ottobre si basò su questo metodo. Nell’opuscolo di Lenin La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, scritto nel settembre ’17, si riassumono i temi dell’agitazione e della propaganda bolsceviche successive alle Tesi di aprile. È una testimonianza eccellente di come i bolscevichi si rivolgessero alle masse. Lenin partiva dai bisogni immediati per presentare un insieme organico di rivendicazioni che, anche se applicato parzialmente, portasse allo scontro con la borghesia e, facilitando la mobilitazione e l’organizzazione, ponesse la questione della lotta per il potere. Lenin indicò gli obiettivi di “pane, pace, terra”, sostenendo inoltre la nazionalizzazione delle banche e delle maggiori industrie, la fine del segreto bancario e commerciale nonché la regolamentazione del consumo, da affidarsi non ad organi dello Stato ma al controllo dei lavoratori. Quel patrimonio teorico fu sviluppato dal III e IV congresso dell’Internazionale Comunista ma venne poi rimosso dalla reazione staliniana.

Trotskij pensò dunque che l’insieme del programma transitorio dovesse servire a gettare un ponte tra le lotte imposte alla classe lavoratrice dalla violenza della crisi capitalista degli anni ‘30 e la lotta diretta per il potere proletario. Nella sua totalità esso non era realizzabile all’interno della società capitalista, tuttavia serviva a mobilitare la classe con obiettivi e parole d’ordine sempre più in conflitto col mantenimento della proprietà privata dei mezzi di produzione. Così Trotskij propose, contro disoccupazione e carovita, la scala mobile delle ore di lavoro fino al riassorbimento della disoccupazione (“il lavoro che c’è deve essere suddiviso tra tutti gli operai e su questa base sarà definita la durata della settimana lavorativa. Il salario di ogni operaio deve restare lo stesso della vecchia settimana lavorativa”) e la scala mobile prezzi/salari. Mentre oggi dalle piazze di mezza Europa sale la voce di milioni di lavoratori e giovani che non vogliono pagare per la “crisi dei banchieri”, queste parole d’ordine brillano per la loro attualità. Come anche l’abolizione del segreto bancario ed il controllo sui libri contabili delle imprese. Quante volte i padroni piangono miseria, e magari hanno appena dirottato milioni di euro in un paradiso fiscale, prima di chiedere ai lavoratori di tirare la cinghia? Sui piccoli padroni rovinati dalla crisi e dalle banche, altro discorso che in questi mesi spesso ci ronza nelle orecchie, Trotskij è fermo: “Ai capitalisti di piccola o media taglia, che talvolta fanno essi stessi la proposta di aprire i libri contabili dinnanzi agli operai – soprattutto per dimostrare la necessità di diminuire i salari – gli operai risponderanno che quello che li interessa non è la contabilità di singoli bancarottieri o semi-bancarottieri, ma la contabilità di tutti gli sfruttatori. Gli operai né possono né vogliono adattare il loro livello di vita agli interessi di singoli capitalisti divenuti vittime del loro stesso sistema. L’obiettivo è la ricostruzione dell’intero sistema di produzione e distribuzione sulla base di principi più razionali e più degni.” Il Programma di Transizione non è un libro di ricette pronte per l’uso ma la sua validità generale è evidente, specialmente ora che il capitalismo, per sopravvivere, deve distruggere le condizioni di vita appena decenti di centinaia di milioni di persone nel mondo. Nei prossimi anni la necessità di dare uno sbocco politico alle lotte dei lavoratori si porrà all’ordine del giorno. I lavoratori, nonostante vari ostacoli, a partire dal conservatorismo delle burocrazie riformiste, scopriranno nella realtà viva della lotta l’urgenza di un programma transitorio.

III - La Quarta Internazionale

Il programma di transizione fu il manifesto fondativo della IV Internazionale. Tra questa e quello c’è un legame preciso, esposto nelle prime righe del testo: “La situazione politica mondiale è caratterizzata innanzitutto dalla crisi storica della direzione del proletariato.” La IV Internazionale è l’argomento più spinoso per i biografi di Trotskij. Soprattutto perché la prospettiva politica di Trotskij è difficilmente comprensibile ad un professore immerso nella routine accademica. Perché quest’uomo così brillante con la penna non si era accontentato di scrivere libri? Perché insistere nel voler ricostruire un’Internazionale rivoluzionaria? Anche Deutscher, nella sua trilogia, assume i panni del critico senza spiegare le ragioni di Trotskij, forse influenzato dalla opposizione alla fondazione della IV Internazionale da parte della sezione polacca di cui all’epoca era militante.

Perché Trotskij maturò questa importante svolta? Bisogna tornare al 1933, anno della vittoria di Hitler. Nel luglio di quell’anno Trotskij si pronunciò per la creazione di nuovi partiti comunisti e per una nuova Internazionale. La verifica era venuta dall’esperienza. I mesi successivi al 30 gennaio 1933, giorno della nomina a Cancelliere di Hitler, testimoniarono che i fatti di Germania avevano deciso le sorti di tutta la III Internazionale. Il nazismo vinse senza combattere. I dirigenti comunisti non presero in considerazione le proprie responsabilità nel disastro. Negli altri partiti dell’Internazionale ci si comportò come se la catastrofe tedesca non fosse mai esistita. Era il certificato di morte. A coloro che diventarono scettici per la bancarotta di due Internazionali in meno di vent’anni, o a chi chiedeva garanzie di non degenerazione per la Quarta, Trotskij rispose: “Dobbiamo avanzare su un cammino pieno di ostacoli e di macerie del passato. Chi ne è spaventato, si metta da parte.” Beninteso, egli non ritenne infondate le riserve di chi notava la debolezza dei gruppi di opposizione su scala mondiale. Tuttavia, la lentezza del loro sviluppo era per lui dovuta all’andamento della lotta di classe, da anni segnato da pesanti sconfitte. Aggiunse poi che proprio nei periodi di riflusso, da sempre, si temprano i futuri quadri della rivoluzione. Era la fine di un’epoca. Bisognava rompere con quella “caricatura di Internazionale che c’è a Mosca”, che dopo aver aiutato Hitler ad andare al potere aveva osato proclamare la propria infallibilità. Addirittura, a suo parere, la II Internazionale nel ’14 aveva avuto una maggiore capacità di reazione della III nel ’33. La catastrofe tedesca non sollevò contro la Direzione nessun Liebknecht, nessuna Rosa Luxemburg per denunciare dall’interno la bancarotta dei capi.

Accanto a lui Trotskij aveva veterani e pionieri del comunismo ma l’idea di proclamare la nuova Internazionale fu vivamente criticata da alcuni suoi seguaci, come Victor Serge, i quali consideravano il momento non opportuno. L’argomento centrale era che le due precedenti internazionali erano nate in momenti di ascesa del movimento o persino rivoluzionari; in più, si erano appoggiate a forti partiti nazionali, mentre la Quarta non aveva alcuna base in partiti di massa. Infine, la Quarta Internazionale avrebbe avuto di fronte due rivali solidamente costituiti, che disponevano di consistenti mezzi materiali e si basavano sulla forza d’inerzia e sullo scoraggiamento. Queste affermazioni, sostanzialmente vere, vanno tuttavia attenuate per comprendere l’iniziativa di Trotskij. è vero che la II e la III internazionale erano solide e potenti, ma è altresì vero che vivevano una crisi profonda. In ciò Trotskij vide le basi della svolta. Egli era pienamente consapevole degli ostacoli. Il principale era la debolezza e la scarsità dei quadri disponibili, anche a causa del massacro dell’opposizione di sinistra in Urss, ed il ruolo eccessivo che incombeva su di loro. Ma organizzare e temprare i quadri e sviluppare un’alternativa politica alla bancarotta della socialdemocrazia e dello stalinismo erano i compiti principali del periodo. La sua corrispondenza mostra che vi si dedicò alacremente.

Le prospettive di Trotskij non erano visionarie. In Francia l’ondata di scioperi ed occupazioni di fabbriche radicalizzò un settore significativo di operai e giovani, accrescendo le file della sinistra del partito socialista (Sfio). In Spagna, l’inizio della rivoluzione provocò un fermento analogo, forse ancora più profondo, nel partito socialista e nella sua gioventù che, nel ’34, si pronunciò per una nuova Internazionale e chiese alla piccola sezione “trotskista” spagnola di “bolscevizzarla”. Nel ’38, però, dopo il fallimento di numerosi tentativi di trovare una strada verso le masse, la IV Internazionale venne fondata soltanto dai gruppi dei bolscevico-leninisti, ovvero i “trotskisti”. L’imminenza della guerra accelerò quel passaggio. A favore della determinazione di Trotskij sul terreno organizzativo, ricordiamo che, al momento della dichiarazione di guerra tra l’ambasciatore francese Coulondre e Hitler, il primo fece notare al secondo che Trotskij – cioè la rivoluzione – sarebbe stato il solo vincitore. Hitler non lo contestò. Non disse a Coulondre che vaneggiava. Urlò che lo sapeva anche lui ma che la responsabilità ricadeva su Francia e Gran Bretagna.

IV - Una bandiera rossa pulita

Mentre l’Ufficio Politico del Pcus discuteva nel 1987 sulla “riabilitazione” di Trotskij, poi rifiutata, suo nipote Esteban Volkov, da Città del Messico, rispondeva che suo nonno non aveva alcun bisogno di essere riabilitato. A noi, oggi, interessa capire perché, al di là di alcune lampanti evidenze storiche ora riconosciute, gli scritti e l’azione di Trotskij hanno fatto tanta paura. I suoi avversari hanno sempre voluto che tacesse. Espulso dal Pcus perché voleva dire la propria, fu cacciato dall’Urss per aver esposto il suo punto di vista nella corrispondenza privata. La grande caccia all’estero, infine, iniziò perché scriveva. La sua eliminazione fisica era la sola garanzia di chiudergli la bocca.

Ma quale fu la posta in gioco dopo il suo assassinio? Così risponde lo storico e militante Pierre Broué: “Il ricordo del combattente, del rivoluzionario, del capo dell’Armata Rossa, dell’avversario di Stalin? Certamente. Ma era soprattutto il contenuto dei suoi scritti, le idee che aveva difeso e propagandato, la sua testimonianza raccolta nei libri e negli articoli di stampa.” è infondato ritenere che Stalin ed i suoi successori, ma anche i suoi seguaci nei partiti comunisti, non avrebbero avuto paura di quelle idee se non le avessero credute capaci di diventare forze materiali?

Quali erano queste idee? Trotskij pensava che in Urss il potere dei lavoratori fosse stato monopolizzato da un ceto burocratico privilegiato che si era impadronito del partito, con tutti i mezzi, assassinio e processi-farsa inclusi, e che ciò mettesse in pericolo le conquiste dell’Ottobre. Già nel 1936, Trotskij chiudeva La rivoluzione tradita ammonendo che, in assenza di una rivoluzione politica che facesse rivivere una democrazia operaia, la burocrazia avrebbe prima o poi restaurato il capitalismo in Urss, col fine di stabilizzare ed accrescere la propria condizione di privilegio sociale. Il pronostico si è realizzato col crollo dei regimi stalinisti nel 1989-91. Non veniva forse Eltsin dalla burocrazia del Pcus?

Ma il bandolo della storia si sarebbe potuto svolgere anche altrimenti. Quando nel ’36 Trotskij delineava il programma di una rivoluzione politica per rovesciare la casta burocratica, anticipava, quasi alla lettera, le rivendicazioni che operai e studenti dell’Europa dell’Est avrebbero avanzato nel ’53 a Berlino, nel ’56 in Ungheria ed in Polonia e nel ’68 a Praga: democrazia consiliare, lotta per l’eguaglianza contro i privilegi, diritto di critica, fine del partito unico, rinascita dei sindacati, revisione dei Piani in base ad una discussione libera sui progetti economici, libertà per l’arte e la scienza, ritorno all’internazionalismo proletario. Il Consiglio operaio della Grande Budapest, nel ’56, fu un vero organo di potere, emanazione dei consigli operai, opposto al governo Kadar.

La bandiera del comunismo è stata orribilmente macchiata dallo stalinismo. Ma Trotskij è stato uno dei primi, e il più grande, a dire no. La stella che Serge vide nascere nel cielo d’Oriente non brilla più. La lotta di Trotskij e dei suoi compagni dà però alle nuove generazioni una bandiera pulita su cui preparare il prossimo assalto al cielo.

SCHEDA/ Trotskij "dittatore"? Verità e mito su Kronstadt

La repressione della rivolta di Kronstadt del '21 merita alcune osservazioni a parte. I marinai di Kronstadt erano stati i figli prediletti dell'Ottobre. Nel '21, naturalmente, non erano più gli stessi del '17. Questi ultimi erano partiti a migliaia per il fronte e per le diverse flottiglie, soprattutto quella del Volga.

Erano diventati commissari politici, agenti della Ceka, la polizia politica, o dirigenti di partito e di Soviet. Chi li sostituì ne ereditò la leggenda ma non la coscienza politica e l'entusiasmo rivoluzionario. Ma la leggenda pesa e la loro repressione è stata ed è tuttora il principale cavallo di battaglia dell'anarchismo contro il bolscevismo, accusato di avere natura identica allo stalinismo. Ma la mitologia anarchica sull'autoritarismo dei bolscevichi massacratori di una rinascente democrazia sovietica non regge. Innanzitutto, dinnanzi alle scoperte degli archivi sovietici.

Ma andiamo con ordine. Riemersa dalla guerra civile, la rivoluzione conobbe la crisi più profonda. Il comunismo di guerra era in crisi. Le requisizioni forzate per nutrire prioritariamente l'esercito e le città avevano portato le campagne sull'orlo della guerra civile. Molti contadini sabotavano le semine, l'industria del nascente Stato sovietico era al collasso e non poteva dare loro beni di consumo e di produzione per cui valesse la pena di aumentare la redditività della terra. Nel febbraio del '20 Trotskij, rimasto in minoranza, aveva proposto di abbandonare il comunismo di guerra. Il partito, anche l'Ufficio Politico, capì con ritardo, dieci mesi dopo, la necessità di superare la politica economica adottata durante la guerra civile. Il malcontento scoppiò anche nelle città, sull'orlo della carestia. A Pietrogrado, nel febbraio '21, alcuni oratori menscevichi ebbero un ruolo negli scioperi spontanei dove si chiedeva l'aumento della razione ma anche la liberazione di tutti gli operai socialisti o senza partito tratti in arresto. Ai primi di marzo, nella base navale di Kronstadt, già in fermento, si diffuse la voce che a Pietrogrado l'esercito e la Ceka avessero sparato sugli operai. La rivolta esplose. In un programma di 15 punti i ribelli avanzavano, oltre ad alcune richieste politiche come la rielezione dei Soviet a voto segreto, quello che i contadini ed alcune fasce della classe operaia reclamavano a gran voce: fine delle requisizioni forzate e apertura alla libertà di commercio. E’ quello che stava preparandosi ad adottare il partito bolscevico, considerando tale politica, ribattezzata NEP, una necessaria ritirata dovuta in primis all'isolamento della rivoluzione in un paese contadino. Troppo tardi per evitare l'esplodere del malcontento accumulato. L'insurrezione venne proclamata il 3 marzo. Curiosamente, i ribelli non accettarono il negoziato ma non passarono nemmeno all'offensiva. I bolscevichi attesero fino al 16 marzo prima di passare all'offensiva. Il disgelo del golfo di Finlandia, infatti, avrebbe a breve restituito agli ammutinati il collegamento marittimo con l'estero, in possesso di una flotta di cui il governo sovietico sarebbe stato privo. Finché era nella morsa del ghiaccio, la fortezza poteva essere presa d'assalto dalla fanteria, sebbene a costo di altissime perdite (alla fine furono circa 10mila soldati e allievi ufficiali rossi a perire).

Paul Avrich, storico dell'anarchismo, per il quale nutrì anche simpatie politiche, così commenta: “Quale governo avrebbe tollerato a lungo una flotta che si era ammutinata nella sua base di maggior importanza strategica, e che i suoi avversari guardavano con cupidigia come possibile punto di partenza per una nuova invasione?”

La polemica è destinata a continuare ma la risposta è già stata fornita. Il governo sovietico non poteva concedersi un focolaio di lotta armata aperto sull'Occidente. Quanto alla partecipazione dei Bianchi e delle potenze straniere all'insurrezione, la tesi complottista non fu certo abbracciata dai bolscevichi, consci della crisi sociale, dovuta al comunismo di guerra, che l'aveva innescata. L'interpretazione caricaturale di Kronstadt è anch'essa da addebitare allo stalinismo. Tuttavia, la presenza attiva dell'ex generale bianco Kozlovskij, che comandava l'artiglieria della base navale, fu prontamente denunciata dai bolscevichi e non è smentibile. Ma le scoperte fatte negli archivi dei Bianchi da Avrich invitano ad una certa cautela anche sulla figura del leader del Comitato militare rivoluzionario di Kronstadt, il marinaio Petricenko. Nel corso dell'insurrezione, infatti, si pronunciò per rifiutare “temporaneamente” l'aiuto offerto dagli esuli Bianchi; subito dopo, in esilio, entrò in contatto col Centro Nazionale, organizzazione di destra, e col generale Bianco Vrangel, al quale, non più tardi del 31 marzo 1921, scrisse per evidenziare la centralità della parola d'ordine “tutto il potere ai Soviet ma non ai partiti” come “opportuna manovra politica” sino alla caduta del governo comunista. Un'altra scoperta fondamentale di Avrich negli archivi del Centro Nazionale è un manoscritto segretissimo, intitolato Memorandum sulla organizzazione di una rivolta a Kronstadt, non datato ma probabilmente di inizio '21. Quegli appunti parlano di una prossima rivolta della guarnigione e insistono sulla necessità di organizzare un pronto intervento guidato da Vrangel, appoggiato dalla marina francese. Secondo il piano Kronstadt avrebbe dovuto essere la base per uno sbarco sulla terraferma. L'anonimo autore del Memorandum, inoltre, parla di contatti con gli organizzatori della rivolta in preparazione. Avrich, e noi con lui, non esclude affatto, anzi, che si tratti proprio del gruppo di Petricenko.

La repressione della rivolta, decisa dal X congresso, ebbe l'appoggio anche delle opposizioni interne, il gruppo “Opposizione operaia” e quello “Centralismo democratico”. Come però disse Bucharin, tutti combatterono con la morte nel cuore. Trotskij, in una cerimonia in onore dei caduti per Kronstadt, disse: “Abbiamo atteso sino all'ultimo che i nostri compagni marinai fuorviati si rendessero conto da soli di dove li stava conducendo l'ammutinamento. Ma ci siamo trovati di fronte al pericolo del disgelo e siamo stati costretti a colpire con decisione.”

Source: FalceMartello