Licenziamoli per giusta causa!

Il governo Monti ha calato un’altra delle carte dal mazzo che la Bce gli aveva passato qualche mese fa. Nella loro famosa lettera Draghi e Trichet chiedevano “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”, ed ecco fatto. Il governo cala l’asso: la fine dell’Articolo 18 è realtà nel disegno di legge che il governo ha presentato per la discussione parlamentare.

L'editoriale del nuovo numero di Falcemartello

Sui dettagli della controriforma rimandiamo a un altro articolo in queste pagine. Il senso generale è chiarissimo: il lavoratore “scomodo” è licenziabile in qualsiasi momento dal padrone, basta pagare un indennizzo, se il giudice accerta la responsabilità dell’impresa. Con la nuova legge, ad esempio, i tre operai di Melfi che Fiat ha licenziato nel 2010 non avrebbero mai ottenuto il diritto di essere reintegrati sul posto di lavoro.

Alcuni esperti di diritto del lavoro lo hanno spiegato chiaramente, con questa legge si torna a prima del 1966, vale a dire a prima della grande stagione di lotte che iniziò con l’autunno caldo del 1969. Ci vogliono in poche parole far tornare al clima di terrore che esisteva nei posti di lavoro negli anni cinquanta. Ricordiamo che, dal dopoguerra fino al 1966, ben 480mila lavoratori vennero licenziati in questo paese, colpevoli di essere militanti di partiti di sinistra, attivisti sindacali o semplicemente di lottare per i propri diritti.

I padroni vogliono mettere il suggello anche dal punto di vista giuridico alla loro “offensiva finale” contro i lavoratori. Con l’art.18 dello Statuto dei lavoratori infatti era il padrone che doveva provare l’eventuale “torto” del lavoratore. Da ora in poi l’onere della prova sarà a carico di quest’ultimo

L’arroganza che ha guidato tutta la trattativa è indicativa delle volontà del governo e della sua totale connivenza non solo con l’ideologia padronale, ma anche con i suoi usi e costumi.

Quando il ministro Fornero in una delle sue tante conferenze stampa sottolinea che “Il posto di lavoro non è ‘di proprietà’ del lavoratore”, fa capire dove ci vorrebbe far tornare, non agli anni cinquanta, ma addirittura all’ottocento, alla definizione letterale di proletariato secondo Marx, ovvero quella classe che ha come unica ricchezza la sua prole.

E che la classe lavoratrice stia scivolando verso una condizione di impoverimento generalizzato crediamo sia evidente per tutti. Anche le statistiche lo confermano: secondo Bankitalia il reddito pro capite, che tiene conto dell’aumento della popolazione, ha fatto un salto indietro di oltre 12 anni. I consumi sono tornati ai livelli degli anni ottanta, con una contrazione dell’1,5% della spesa alimentare l’anno scorso. Tutto ciò in una situazione in cui il Prodotto interno lordo nel 2011 è stato inferiore di cinque punti rispetto al 2007, cioè al periodo precedente alla crisi.

Obiettivo: ritorno all’ottocento

In questo contesto di vera e propria emergenza sociale e di rabbia e insoddisfazione crescente nella società il governo dei professori ha continuato come uno schiacciasassi. Monti non si può accontentare di un compromesso, pur favorevole ai “mercati”. Si sente un predestinato, colui che deve dare l’esempio a tutti i governi europei e quindi non vuole solo vincere, ma stravincere e azzerare le conquiste del movimento operaio italiano. In questo senso l’Italia può essere un laboratorio, le cui sperimentazioni, tutte sulle carne viva dei lavoratori, potranno in seguito essere riprodotte in altri paesi. Ecco perché scelgono di rompere con il metodo della concertazione, con il plauso di tutti i principali giornali italiani. Ecco perchè a volte i “Professori” sembrano tenere una linea più dura della stessa Confindustria, che oggi è debole e divisa e il cui nuovo presidente, Squinzi, ha definito una “non priorità” la modifica dell’articolo 18.

Nella loro furia iconoclasta Monti e Fornero hanno puntato il loro mirino non solo contro i lavoratori, ma anche contro il gruppo dirigente della Cgil. L’ultimatum “prendere o lasciare” era rivolto soprattutto a Susanna Camusso, non tanto a Bonanni o Angeletti. Quando Monti ha affermato “sono tutti d’accordo tranne la Cgil, e per noi la questione è chiusa” ha ferito il prestigio dei dirigenti del principale sindacato italiano, che non poteva che rispondere e dire No.

Tuttavia non è solo una questione di orgoglio ferito, la rottura col governo ha avuto anche ben altre ragioni: in decine di città e centinaia di fabbriche erano partite e continuano tuttora le mobilitazioni contro la cancellazione dell’articolo 18. L’insofferenza di tanti dirigenti intermedi e di segretari di categoria, che avevano già dovuto far ingoiare alla base una controriforma pesante come quella delle pensioni a dicembre, era sempre più palese.

Alla fine il direttivo nazionale della Cgil ha dichiarato sedici ore di sciopero, di cui otto dedicate a uno sciopero generale nazionale e altre otto destinate a iniziative ed assemblee nei territori.

È un segnale atteso da tantissimi lavoratori che volevano iniziative di lotta all’altezza dell’attacco di governo e padroni e non ne potevano più della pace sociale portata dal governo di unità nazionale.

In una battaglia come quella che ci si appresta a combattere tuttavia, sono importanti non solo i segnali, ma anche le truppe e gli alleati, gli obiettivi e le azioni tramite le quali si vuole giungere agli obiettivi.

Davanti alle preoccupazioni di Napolitano per la tenuta del governo e alle pressioni del Partito democratico, il governo Monti ha deciso di inserire la sua “riforma” in un disegno di legge e non in un decreto. Sulla possibilità di emendare questo Ddl si basa la strategia di Pd e Cgil. E qui cominciano i problemi. Il Pdl ha detto che non vuole alcun modello tedesco, e la maggioranza parlamentare per modifiche migliorative semplicemente non c’è. All’interno dello stesso Pd c’è chi voterebbe il Ddl a scatola chiusa, come Letta, e chi sostiene che “è una bestemmia dire che questa legge voglia i licenziamenti facili”, come Ichino.

Bersani ha ribadito, nella riunione della direzione dei democrats, che: “Il Pd deve tenere insieme la connessione tra il sostegno convinto al governo che abbiamo voluto e il malumore, l’ansia di tanti cittadini”. Conclusione: fidarsi del Pd per difendere l’articolo 18 è follia pura.

Il dibattito parlamentare potrebbe quindi tramutarsi in uno stucchevole gioco delle parti, dove a farne le spese sarebbero naturalmente i lavoratori.

Il problema poi non è solo la parte riguardante l’articolo 18, ma l’intera riforma. Il testo infatti abolisce la mobilità e la cassa integrazione straordinaria per cessata attività, non cancella nessuna delle forme di precariato esistenti, garantisce una copertura finanziaria ridicola per i nuovi ammortizzatori sociali. La Fornero dice di aver reperito 1,7-1,8 miliardi di Euro, ma ricordiamo che oggi per gli attuali ammortizzatori se ne spendono quasi 18.

La Camusso afferma che sul “resto della riforma ci sono novità positive”. Sarà forse perché, come afferma sempre Pietro Ichino “questo progetto del Governo è in gran parte costruito con materiali programmatici prodotti proprio dal dibattito interno di questo stesso partito (il Pd, Ndr).”? (Corriere della Sera, 22 marzo 2012)

Il ritiro integrale del disegno di legge è l’unica posizione che può mobilitare il maggior numero di persone, tutti coloro che già sperimentano con disgusto sulla propria pelle l’attuale situazione di precarietà dilagante.

I tempi della mobilitazione inoltre sono decisamente non all’altezza della situazione. Lo sciopero generale fra due mesi, a fine maggio, rischia seriamente di disperdere il potenziale di mobilitazione che abbiamo davanti agli occhi. Che ci sia voglia di lottare lo testimoniano le mobilitazioni di questi ultimi giorni, lo testimonia lo sciopero della Fiom del 9 marzo, con oltre 50mila lavoratori che hanno sfilato per le strade di Roma con posizioni fortemente critiche con le politiche del governo.

La segretaria della Cgil ama i tempi lunghi non per pigrizia, ma perchè è prigioniera di un tempo ormai passato. Come spiega all’Unità del 25 marzo “Sono sempre convinta che la concertazione sia una risorsa per la democrazia (...) La concertazione si regge sulla mediazione. Bisogna essere convinti del valore della mediazione e cercarla.” Oltre alle strategie, il problema dei vertici sindacali è che si scelgono gli alleati sbagliati. Sempre nella stessa intervista, riguardo ai rapporti col nuovo presidente dell’Associazione degli industriali Camusso spera “in una ripresa delle relazioni in coerenza con quanto si è ipotizzato con l’accordo del 28 giugno.” Ancora una volta si confida in una nuova stagione del “patto fra produttori” cioè fra sindacati e Confindustria per contrastare le scelte del governo, come fu con Berlusconi. I risultati nefasti di questa politica per i lavoratori sono sotto gli occhi di tutti.

Se il terreno di battaglia è chiaro, i “nostri”generali stanno dunque sbagliando strategia, alleanze e tempi dello scontro. Diremo di più: questi generali sono inadeguati e devono essere cambiati.

Per vincere non ci si può fidare nè del Partito democratico, nè di Confindustria, nè tantomeno di Napolitano. Le differenziazioni fra le forze della maggioranza che sostiene Monti esistono eccome, così come nel Pd, ma possono esplodere solo con l’intensificarsi della lotta di classe e dello scontro sociale. Se si forniranno invece segnali di distensione, si ricomporranno tutte.

Non servono scioperi “telefonati”, soprattutto in tempo di crisi, ma la forza del movimento operaio deve essere utilizzata per bloccare il paese, per fare male veramente a governo e padroni.

Serve inserire la mobilitazione nel contesto del conflitto che si sta sviluppando in Europa. Il terzo sciopero generale in Portogallo si è appena concluso, mentre quello in Spagna avrà luogo il 29 marzo. Le prossime elezioni in Grecia con ogni probabilità consegneranno un successo strepitoso alla sinistra e nel frattempo in Francia Melenchon, candidato del Front de gauche e del Partito comunista è dato in tutti i sondaggi a un risultato superiore alle due cifre. Sono solo alcuni dei segnali che dimostrano che il vento sta cambiando, ed ora può arrivare anche sulla penisola.

Per la caduta del governoMonti e Fornero hanno lanciato un guanto di sfida: se la legge non piace, che ci mandino a casa. Nessuno in parlamento è disposto a raccoglierlo, tantomeno il Pd che teme la crisi di governo come la peste, dato che in uno scenario del genere il partito si potrebbe spaccare. Tocca al movimento operaio essere all’altezza di questa sfida. Il governo sull’articolo 18 può cadere, se ci si mobilita uscendo dai binari tranquilli su cui ci vorrebbero instradare i vertici sindacali.

Questa nuova disponibilità alla lotta deve essere utilizzata subito, sviluppando l’autorganizzazione del conflitto a tutti i livelli. Bisogna sfruttare le scadenze di lotta che si decideranno a livello centrale per estendere e per rendere il conflitto ingovernabile per chi vuole moderarlo. In questo contesto le forze a sinistra del Pd e soprattutto il Prc possono giocare un ruolo e trarre nuova linfa da questo conflitto, a condizione che abbandonino ogni proposito di condizionamento del Pd o dei suoi settori cosiddetti di “sinistra” e che pongano le dimissioni del governo Monti al centro della propria propaganda.Qui non si tratta infatti di “salvare” il Pd a chissà quale prospettiva ipotetica di governo per il dopo Monti. Il partito di Bersani è parte del problema, non è la soluzione. Si tratta oggi di salvare i destini della classe lavoratrice e le sue conquiste da chi vuole gettarci in una condizione di schiavitù. Una nuova stagione di lotte si può aprire davanti a noi e la riscossa della nostra classe è pienamente possibile. I comunisti hanno il compito di aiutare il movimento operaio a non sprecare questa occasione.