L’attacco a Gaza, un altro crimine dell’imperialismo

Da otto giorni continuano gli attacchi aerei dell’esercito israeliano su Gaza. I morti sono oltre 140, tra cui moltissimi civili, donne e bambini, e i feriti sono più di un migliaio. L’attacco di Israele è stato particolarmente feroce, dato che in soli sei giorni di conflitto Israele ha lanciato 1350 colpi. I morti in campo israeliano sono 4 (dati: aljazera.net).

Nonostante i tentativi di mediazione finora non è stato raggiunto nessun accordo di cessate il fuoco, anzi Israele ha invitato i palestinesi ad abbandonare le proprie case a Gaza City per non subire drammatiche conseguenze.

La crisi è scoppiata dopo l’uccisione del leader del braccio armato di Hamas, Ahmed Jabari, e i bombardamenti a tappeto nella striscia da parte di Israele. Mentre i tentativi di mediazione da parte egiziana proseguono, Israele mantiene pronte le sue truppe (circa 30.000 uomini pronti per un’invasione di terra e armi pesanti schierati a Nord ed Est di Gaza).

Tuttavia, per i governi occidentali, Israele sta in realtà combattendo il “terrorismo”.

L’ipocrisia dei mass media occidentali non si ferma nemmeno davanti alle immagini terribili di bambini, uomini e donne di Gaza con le carni straziate dalle bombe israeliane.

Il governo Monti è da sempre allineato, con l’emetto in testa, a Israele. Il segretario del Pd, Bersani, temerariamente si spinge a ricordare che il “Pd non è tifoso nè di Israele nè dei palestinesi”, come se stesse guardando alla Tv una partita di calcio e non fosse invece in atto, sull’altra sponda del Mediterraneo, l’annientamento di un popolo.

Israele e Palestina

Gaza, come è noto, vive una situazione drammatica, una prigione a cielo aperto in cui la popolazione vive privata di ogni diritto a causa del blocco imposto dal governo israeliano. Proteste nella Striscia si sono susseguite negli ultimi anni, represse sia da Israele che da Hamas. Quest’ultima si è dimostrata ad ora incapace di cambiare le condizioni di vita della popolazione.

In Israele si avvicinano le elezioni della Knesset (il parlamento nazionale), il prossimo gennaio, e la situazione per l’attuale governo non è rosea. Dopo la primavera araba si sono susseguite in Israele una serie di manifestazioni contro le condizioni di vita sempre più difficili per gli stessi israeliani. Disoccupazione e tassi di povertà alle stelle hanno portato i cittadini israeliani a mettere parzialmente in discussione le politiche israeliane. Il governo israeliano ha sentito la necessità di un’azione forte per recuperare consenso? È la prospettiva più probabile, e tale politica guida anche le costanti minacce del governo Netanyahu nei confronti dell’Iran. In fondo la strategia della paura, del nemico che attornia lo stato ebraico e ne minaccia la scomparsa è un leit motiv della propaganda israeliana. Non è detto che l’operazione gli riesca e, dati i costi e il possibile protrarsi del conflitto, potrebbe ritorcersi contro i piani israeliani.

D’altra parte le elezioni americane non sono andate nel modo in cui Netanyahu sperava, consegnando la vittoria ad Obama, che fino ad ora ha posto un veto alle ambizioni bellicose di Israele verso l’Iran. Forse anche questo elemento ha spinto Israele nella direzione di un’aggressione tanto brutale. Nel frattempo Hilary Clinton è volata in Israele incontrando rappresentanti politici di Israele, Egitto e della Cisgiordania per concordare un cessate il fuoco. Naturalmente nessun incontro è avvenuto coi leader di Hamas: ancora una volta, nonostante tutto, si dimostra palese l’appoggio americano alla linea di Israele.

L’amministrazione Obama critica l’eventualità di un’invasione di terra (e ancor di più un attacco all’Iran) non perchè è mossa da un sincero pacifismo, ma perchè è terrorizzata dalle conseguenze che azioni del genere potrebbero avere in tutto il mondo arabo e musulmano. Il giorno dopo un attacco all’Iran non resterebbe in piedi nemmeno un’ambasciata Usa da Rabat a Jakarta. L’imperialismo americano ha già pagato un prezzo molto alto dopo l’invasione all’Iraq e un atto unilaterale di Israele, che Washington dovrebbe comunque sostenere, indebolirebbe ulteriormente la posizione degli yankee nella regione.

Il contesto internazionale

Quella che stiamo vedendo richiama alla mente l’operazione Piombo Fuso, con cui Israele nel 2008 ha massacrato oltre 1400 palestinesi. Ci sono però differenze fondamentali nell’area che vanno considerate per comprendere il possibile evolversi della situazione.

Mubarak non c’è più. Il leader egiziano, fedele alleato di Israele, è spazzato via dalle proteste di piazza. Al suo posto Morsi, leader dei Fratelli Mussulmani. Hamas, è opportuno ricordarlo, è il ramo palestinese della Fratellanza, che sebbene sia nata in Egitto, ma ha avuto fin dagli esordi una vocazione panislamica. L’Egitto sta cercando, in queste ore, con l’aiuto di Turchia e Qatar (altri paesi centrali nell’assetto mediorientale attuale) di cercare una mediazione e di arrivare a un cessate il fuoco. Morsi ha condannato l’aggressione, richiamato l’ambasciatore e aperto il valico di Rafa’ per il transito dei feriti. Una reazione tutto sommato tiepida. Anche il resto dei leader arabi sono impegnati sulla stessa lunghezza d’onda e per evitare un’invasione di terra da parte dell’esercito israeliano, che potrebbe avere conseguenze devastanti nella regione.

Il nuovo governo egiziano limita dunque tutti i suoi sforzi all’azione diplomatica e alla denuncia del “disastro umanitario”. Non otterranno alcun risultato, Israele andrà avanti finchè non otterrà i propri obiettivi.

La maggior parte dei nuovi leader saliti al potere dopo la primavera araba, non godono di una stabilità tale da consentire alcun tipo di azione risolutiva. D’altra parte il non fare nulla potrebbe aprire fronti di opposizione interna di non facile gestione. Bisogna però aggiungere che al momento le manifestazioni a sostegno di Gaza non hanno avuto una partecipazione massiccia, ad esempio in Egitto, ma la situazione potrebbe repentinamente cambiare, considerato il malcontento nei vari paesi. Di ieri la ripresa di manifestazioni con violenti scontri a Mohamed Mahmoud street, al Cairo, in occasione dell’anniversario delle proteste dello scorso anno.

Questa nuova offensiva israeliana svela tutta la pavidità  delle borghesie arabe, terrorizzate dal mobilitare le masse dei rispettivi paesi contro l’attacco imperialista, per la paura delle conseguenze interne. I Fratelli musulmani in Egitto, Ennahda in Tunisia e Erdogan in Turchia temono molto di più una nuova ondata di lotta di classe nei rispettivi paesi che l’esercito israeliano.

Allo stesso tempo, Israele risulta effettivamente sempre più isolato, considerato che anche la Turchia, alleato storico nella regione, ha iniziato a voltare le spalle al governo israeliano nel tentativo di costruire una propria egemonia in Medio Oriente.

Quale soluzione del conflitto?

L’immediato cessate il fuoco e la fine del blocco di Gaza diventano rivendicazioni immediate per dare sollievo alla popolazione massacrata; ma l’intricato conflitto israelo-palestinese si potrà risolvere solo quando lavoratori e lavoratrici e le classi più sfruttate di Israele e Palestina lotteranno insieme, prendendo in mano il loro destino. Hamas ed Israele non hanno nulla da offrire alla popolazione.

L’Autorità nazionale palestinese dalla Cisgiordania balbetta appelli accorati riguardanti  il ruolo dell’Onu come pacificatore del conflitto. Il segretario generale delle Nazioni unite, Ban-Ki-Moon, si è recato al Cairo, in Isreale e pure a Ramallah (sede dell’Anp). Tutto quello che ha saputo dire in tali occasioni è che “israeliani e palestinesi fermino gli attacchi”, una posizione ponziopilatesca che mette sullo stesso piano aggrediti e aggressori.

Dalle diplomazie internazionali non verrà nulla di buono per le masse palestinesi. L’unica possibilità viene dalla lotta di massa, da una nuova esplosione rivoluzionaria in Palestina e nel mondo arabo che porti al crollo dei regimi reazionari, vecchi e nuovi che dominano nell’area e che attraverso un appello di classe rivolto ai lavoratori e ai giovani di Israele, provochi una crisi all’interno di un regime già traballante.

Israele vive un periodo di profonda crisi economica, e l’aggressione a Gaza non che un’espressione rabbiosa del capitalismo in crisi che non riesce più a trovare soluzioni all’impoverimento di massa. Hamas d’altronde si è dimostrata incapace di agire nel migliorare le condizioni di vita dei palestinese, sostenendo di fatto quello stesso sistema economico in nome del quale ogni giorno i  palestinesi vengono sfruttati e uccisi.

Le manifestazioni dell’ultimo periodo in Israele e Palestina segnano un possibile punto di partenza per la soluzione del conflitto se i movimenti saranno in grado di unirsi, segnando il ritorno di una lotta di classe che metta in discussione le rispettive classi dominanti. E che infine, rifuggendo tutte le logiche nazionalistiche (quali ad esempio due popoli, due stati all’interno dello sfruttamento capitalista), si basi su un nuovo sistema, quello di una federazione socialista del Medio oriente.

Source: Falce Martello (Italy)