La lotta del popolo saharawi: storia e prospettive

Italian translation of The struggle of the Saharawis, history and perspectives by Jordi Martorell (March 29, 2005)

[NB: Questo articolo è stato scritto tre anni fa nell’ambito di una discussione sulla questione della lotta del popolo saharawi. Sebbene l’impostazione proposta resti assolutamente valida, se ne tenga conto nella lettura]

Il conflitto nel Sahara Occidentale è una questione fondamentale da affrontare per i rivoluzionari dell’area del Maghreb non solo da un punto di vista teorico (data l’importanza che, per il marxismo, riveste il diritto all’autodeterminazione dei popoli), ma anche da un punto di vista più pragmaticamente politico (nella misura in cui resta impossibile portare a termine i compiti della rivoluzione socialista in quella regione senza una chiara comprensione marxista ed internazionalista della questione nazionale).

Per chiarire meglio la rilevanza di questo punto, è bene riprendere un po’ più in dettaglio la storia del conflitto e le relazioni della lotta del Sahara Occidentale con il resto del Maghreb. In questo modo sarà più chiaro come il destino del popolo saharawi sia stato determinato dagli interessi dell’imperialismo e che, quando pure fosse loro finalmente concessa l’indipendenza (cosa estremamente improbabile), questo non porterebbe altro che a rimanere incatenati ad un’altra potenza imperialista.

Il colonialismo spagnolo

I primi contatti europei con il Sahara Occidentale si ebbero nel XV secolo da parte sia del regno di Castiglia che di quello del Portogallo. Nessuno dei due regni si pose davvero nella posizione di voler impiantare una presenza coloniale permanente, limitandosi ad individuare dei punti strategici per le attività commerciali che erano principalmente punti d’appoggio per il traffico degli schiavi.

L’interesse per quelle terre fu inesistente per secoli, fino al XIX secolo, al tempo della grande corsa alla colonizzazione dell’Africa cui presero parte tutte le principali potenze imperialiste europee. Nel 1894, al Congresso di Berlino si posero le basi per un accordo complessivo sulla spartizione dell’Africa. Nel dicembre dello stesso anno, il governo spagnolo istituì il proprio protettorato sui territori del Rio de Oro, Angra de Cintra e la Baia Occidentale, e l’anno dopo fondò un insediamento presso Dhakla, Villa Cisneros. Da quel momento, i confini del Sahara Occidentale furono modellati da una serie di accordi bilaterali tra Francia e Spagna, fino al 1912. Dunque, il territorio di cui la Spagna rivendicava il possesso erano il Rio de Oro, Saguia el-Hamra ed il protettorato del Marocco del Sud Spagnolo, un’area di circa 180.000 kmq (poco più di metà Italia) miglia quadrate. Tuttavia, la Spagna era in quel momento troppo debole per occupare effettivamente questi territori, per cui fino al 1916, Villa Cismeros fu il solo avamposto spagnolo nella regione. Nel 1916 gli spagnoli presero Tarfaya e più avanti, nel 1920, costruirono un terzo insediamento nell’estremo sud, in una località detta La Guera.

La popolazione locale era composta da una serie gruppi tribali che si facevano chiamare ed erano considerati da altri gruppi confinanti come gli ahel es-sahel (il popolo del litorale). L’attività economica principale era la pastorizia nomade, sebbene ci fossero anche scambi tra le tribù confinanti. Si trattava, in definitive, di una società piuttosto primitiva, le cui limitate risorse economiche e materiali non consentivano una significativa differenziazione sociale. Queste popolazioni erano organizzate in tribù (qabila) che regolavano le loro attività attraverso delle assemblee (djemaa) dei capi delle famiglie più importanti, i quali sceglievano lo sheik del gruppo. A livello di ogni singola tribù, l’assemblea era detta Ait Arbit, ovvero “consiglio dei quaranta”, un organismo che veniva chiamato in causa nei momenti di crisi più grave o di guerra.

Date le condizioni ambientali estremamente dure del deserto, non era possibile sviluppare particolari organizzazioni o leggi sovratribali. Forme organizzative più elaborate erano presenti solo più a sud, nei territori dell’odierna Mauritania, in cui qualche forma, pur debole, di relazione organizzativa sovratribale inizio a svilupparsi dal XVII secolo.

Dunque abbiamo visto come fino al 1934, gli spagnoli si limitarono ad una presenza nei punti chiave della costa, fermandosi a tre avamposti, senza fare grossi tentativi di penetrare nell’entroterra. Il risultato di questa politica fu che l’interno del paese, ed in generale tutto il territorio coloniale spagnolo nella zone, si trasformò in un rifugio per tutti i gruppi tribali nomadi che lottavano contro la penetrazione francese in Marocco, Mauritania ed Algeria. La lotta era condotta unitariamente da tutti i gruppi tribali, a prescindere dalle competenze geografiche: nel 1910, ad esempio, lo sceicco saharawi Ma el-Ainin cercò di rovesciare il debole sultano alawita marocchino Moulay Hfid che collaborava con i colonialisti francesi. Non essendoci una chiara separazione lungo linee nazionali, la lotta era intesa per la liberazione del Marocco in generale dal colonialismo e dai suoi complici locali. Alla fine, però, Ma el-Ainin fu sconfitto dalle forze francesi.

La resistenza delle popolazioni locali fu finalmente domata nel 1934 in una importante operazione militare che accerchiò le forze insorte utilizzando forze francesi dal Marocco francese, dall’Algeria, dall’Africa occidentale francese e truppe spagnole. Gli spagnoli, quindi, furono spinti dai francesi ad occupare alcuni punti strategici anche nell’interno, onde evitare che quelle zone fossero usate come basi d’appoggio per le incursioni nei territori del Maghreb occupati dai francesi.

Nonostante questo, il Sahara spagnolo rimase una colonia sostanzialmente dimenticata, dal valore economico molto limitato per la Spagna. Le due ragioni per la quale veniva mantenuta erano il tentativo di bilanciare la presenza francese nell’area da un lato, e dall’altro la protezione delle Isole Canarie e le loro acque pescose, in specie dal lato del continente africano. Ancora nel 1952, in tutta la colonia c’erano solo 216 impiegati civili, 24 abbonati al telefono e 366 bambini nelle scuole di tutto il Sahara spagnolo. Gli ahel es-sahel continuavano la loro vita nomade ed erano controllati dagli spagnoli attraverso le loro stesse strutture organizzative, le qabila degli sceicchi, secondo una modalità di controllo molto comune ad altri luoghi. Infatti gli imperialisti hanno utilizzato spesso proprio le strutture tribali autoctone come base d’appoggio del loro dominio.

La lotta contro il colonialismo

Tutto il periodo precedente l’indipendenza nel Marocco, nel 1956, fu caratterizzato dalla lotta continua, in tutta la regione, contro i colonialismi francese e spagnolo. Jaich at-Tahir (Esercito di liberazione) combatteva in una regione che oggi comprende il Marocco, alcune regioni dell’Algeria, nel Sahara Occidentale ed in Mauritania. In particolare, le tribù saharawi lottavano per la liberazione del Marocco.

Conquistata l’indipendenza, i francesi si appoggiarono moltissimo sul nuovo re Mohammed V per mantenere nelle loro mani il controllo delle risorse naturali del paese. Per far questo, il re dovette prima domare le rivolte nella regione del Rif settentrionale nel ‘57, poi combattere quanto rimaneva dell’Esercito di Liberazione, le cui forze non erano tutte passate nelle nuove forze armate reali (FAR), in particolare nei territori spagnoli del sud Marocco e nel Sahara Occidentale. La forza della guerriglia fu tale da costringere al ripiego gli spagnoli, sempre nel ’57, costringendoli ad arroccarsi in alcune piazzeforti sulla costa e perfino lasciare la città di Smara.

Questo movimento costituì una minaccia reale per il processo di “decolonizzazione” controllata che i francesi intendevano portare avanti in Marocco, aggiungendosi ai problemi che avevano già in Algeria, colonia che intendevano mantenere a tutti i costi. Perciò, nel febbraio ’58, un’operazione congiunta franco-spagnola, nome in codice Ecouvillon, forte di 14.000 soldati e 130 mezzi aerei, ed appoggiata dall’aviazione di re Mohammed V, ebbe finalmente ragione della resistenza. Fu solo dopo questa vittoria militare che gli spagnoli acconsentirono a lasciare i loro possedimenti al regime di Rabat nell’aprile del 1958.

All’inizio degli anni ’60, il Sahara spagnolo entrò in una fase di profondo cambiamento socio-economico, mutando drasticamente anche la natura del movimento saharawi. Giacimenti di fosfati erano noti nella zona già dal ’42, ma ricerche approfondite ed iniziative per il loro sfruttamento iniziarono solo venti anni dopo. Le stime della dimensione dei giacimenti riportavano circa 10 milioni di tonnellate di fosfati, con un sito particolarmente importante a Bou-Craa, ma già nel ’75, dopo importanti investimenti spagnoli nella zona, lo sfruttamento annuo arrivava a 2,6 milioni di tonnellate.

Questi importanti cambiamenti economici fecero sì che si producesse una rapida urbanizzazione della società saharawi, la cui maggioranza abbandonò le durezze della vita nomade per stabilirsi nei principali centri urbani. La maggior parte di loro divennero lavoratori salariati ed altri aprirono negozi e botteghe. Altri ancora passarono dalla pastorizia nomade all’agricoltura stanziale. Nel 1974, il 55% della popolazione saharawi registrata nel censimento di quell’anno (73.497 persone) viveva nelle tre città principali: Villa Cisneros, El Ayoun e Smara. Tuttavia, il censimento spagnolo del ’74, che poi divenne la base per il promesso referendum per l’autodeterminazione, si fece “sfuggire” un gran numero di saharawi che si erano stabiliti oltre il confine artificiale, imposto dai colonialisti, del Sahara spagnolo. Si stima che all’epoca dovessero esserci almeno altrettanti ahel es-sahel nel Marocco meridionale spagnolo, nel nord della Mauritania e nel sudovest dell’Algeria.

La nascita del Polisario

In ogni caso, il passaggio da uno stile di vita nomade all’urbanizzazione portò con sè la nascita di un nuovo movimento nazionalista basato sulla classe media di recente formazione, diffuso, in particolare, tra gli studenti che avevano studiato all’estero, influenzati dalle idee antimperialiste e dallo stalinismo.

Verso la fine degli anni ’60 si formò un piccolo movimento clandestino: l’Organizzazione per la Liberazione di Saguia el-Hamra e Oued ed-Dahab, il cui leader era Mohammed Sidi Ibrahim Bassiri, membro della tribù dei Reguibi, che aveva studiato in Marocco, Egitto e Siria. Il movimento fu represso nel sangue dal fuoco della legione straniera spagnola sugl’insorti nazionalisti ad El Ayoun nel giugno del ’70, quando centinaia di persone furono arrestate e Bassiri fu, molto probabilmente, ucciso dalle forze spagnole.

Il tentativo successivo di riorganizzare un movimento anticolonialista venne ancora da parte degli studenti, in Marocco, principalmente, ma anche in Mauritania. A Rabat, infatti, tra il ’71 ed il ’72, si era formato un gruppo di militanti saharawi chiaramente influenzati dal clima radicale allora diffuso tra gli studenti marocchini. Ad un decennio dall’inizio del processo di decolonizzazione, era chiaro alla piccola borghesia, ed ai suoi figli in particolare, che il percorso intrapreso dai nuovi governanti africani non li avrebbe condotti molto lontano e non stava risolvendo alcuno dei problemi delle masse popolari. Nonostante la retorica del “socialismo africano” e del “socialismo arabo”, tutti questi paesi erano diventati dei regimi bonapartisti borghesi, con una spiccata attitudine alla repressione di ogni opposizione operaia. Pertanto le nuove generazioni furono attratte immediatamente dallo stalinismo, in particolare nella sua variante maoista, vista come la più radicale delle alternative. La situazione era tanto più grave in Marocco, dove più forte e brutale era la repressione da parte della monarchia.

In Marocco si era affermato un certo numero di organizzazioni maoiste tra gli studenti. Di fatto queste controllavano quel movimento, che ebbe un ruolo fondamentale nella lotta contro la monarchia alawita. Alcuni dei fondatori del Polisario provenivano da quei gruppi, cosìcche quando, nel 1973, fu fondato il Fronte popolare per la liberazione di Saha el-Hamra e Rio de Oro (Polisario), si configurò come una classica organizzazione guerrigliera stalinista che teneva insieme l’obiettivo della liberazione dai coloni spagnoli con la fondazione di una “Repubblica democratica araba”. Inizialmente, infatti, l’obiettivo della liberazione del Sahara era visto come un elemento della “Rivoluzione araba” che s’intendeva antimperialista, antisionista e contro i regimi reazionari feudali dei paesi arabi, in un percorso verso l’unificazione della nazione araba. Per questo motivo, i fondatori del POLISARIO ebbero contatti significativi, e sostegno, dalla Libia. Essi cercarono anche di guadagnarsi l’appoggio di altre organizzazioni nazionaliste marocchine, senza grande successo.

Tuttavia, questa fu la prima volta che il movimento nazionalista saharawi si pose l’obiettivo di un Sahara indipendente, piuttosto che di proseguire unito alla lotta comune contro l’imperialismo in Marocco, ed in misura minore in Algeria e Mauritania. Va detto che in quel periodo una lotta per l’integrazione nel regime monarchico marocchino non era certo molto affascinante. In ogni caso, i fondatori del Polisario, in origine, pensavano ad un Sahara indipendente come un primo passo verso l’unificazione del Maghreb, nell’ambito della lotta per la rivoluzione in tutta la regione. Tuttavia, va rilevato che se invece di portare avanti un atteggiamento nazionalista avessero deciso di legare la loro lotta a quella più generale contro la corona marocchina che i lavoratori, i contadini e gli studenti marocchini comunque portavano avanti, potrebbero aver avuto la possibilità di contribuire grandemente al movimento rivoluzionario marocchino, che era il solo a poter loro garantire il rispetto dei loro diritti nazionali.

Il “Grande Marocco”

Nello stesso tempo, sia il Marocco che la Mauritania avanzavano pretese territoriali sul Sahara spagnolo. Subito dopo l’indipendenza dalla Francia, nel 1956, in Marocco il partito nazionalista Istiqlal cominciò a sostenere la tesi che il percorso di liberazione nazionale non poteva considerarsi concluso fino a quando non fossero stati riacquisiti dal Marocco i confini storici dell’impero alawita, ossia anche gran parte del Sahara algerino, il nordovest del Mali, tutta la Mauritania, fino ad una parte del Senegal. I confini che oggi separano questi stati sono del tutto arbitrari, infatti, ed imposti dal colonialismo francese e spagnolo, come si può facilmente desumere dal fatto che in molti casi siano delle linee rette che corrono nel deserto a prescindere da qualsivoglia considerazione geografica o nazionale, come poi avviene per la maggior parte degli stati africani.

In ogni caso, la nascente borghesia marocchina, rappresentata da Istiqlal, non era tanto interessata alla questione dell’integrità territoriale quanto al reperimento di un metodo per unire tutto il paese, a prescindere dagli interessi di classe, in uno sforzo comune che facesse dimenticare alle masse le questioni di maggiore rilevanza sociale. In tutto questo, il re Mohammed V, ancora impegnato in una fase di consolidamento del proprio potere, non poteva lasciarsi scavalcare sul piano del fervore nazionalista, per cui sposò integralmente la causa del “Grande Marocco”. Per questo motivo, il Marocco non riconobbe la Mauritania all’indomani dell’indipendenza di questa, nel 1960. all’epoca, a questione dell’integrità territoriale non era sostenuta da tutto il movimento nazionalista.

Tuttavia, l’ala più radicale ed orientata a sinistra, capeggiata da Ben Barka, che nel 1959 guidò una scissione da Istiqlal fondando l’Unione nazionale delle forze popolari (UNFP), condannava esplicitamente queste posizioni, riconobbe la legittimità dell’esistenza della Mauritania come stato sovrano e si oppose alla guerra del ’63 contro l’Algeria. Queste posizioni erano condivise dalla più importante delle organizzazioni sindacali dell’epoca il Sindacato dei lavoratori marocchini (UMT). Al contrario, il partito comunista, sempre in linea con la politica criminale stalinista dei due periodo, manteneva posizioni del tutto simili a quelle di Istiqlal (e dunque della monarchia), giungendo perfino a criticare il re per il riconoscimento della Mauritania nel 1970. all’epoca, per loro, la questione del Sahara occidentale era inserita semplicemente nel quadro della lotta contro il colonialismo spagnolo, nella prospettiva dell’incorporazione di questi territori nel Marocco monarchico.

Un altro elemento molto importante per spiegare la determinazione della classe dominante marocchina sulle rivendicazioni territoriali era il terrore che lo spirito rivoluzionario del movimento di liberazione algerino, molto radicale e con un linguaggio, in un certo senso, “socialista”, potesse diffondersi anche in Marocco, mettendo a repentaglio la stabilità della monarchia. Pertanto, nel 1963, a nemmeno un anno dall’indipendenza algerina, il Marocco combatté con l’Algeria la breve “guerra delle sabbie”.

Dal canto suo, la Mauritania, aveva tutta l’intenzione di evitare che il Sahara occidentale cadesse in mano marocchina, concedendo al bellicoso regime qualche migliaio di confine desertico difficilmente difendibile. Inoltre, gran parte di questo confine con il Sahara spagnolo correva lungo una linea ferroviaria strategica, dalla cui presenza la Mauritania ricavava l’85% delle proprie entrate dall’estero.

Nonostante le pretese accampate sul Sahara spagnolo, la monarchia alawita non intraprese iniziative belliche rilevanti per oltre dieci anni, utilizzando lo stato di guerra permanente come merce di scambio. Un chiaro esempio di questo fu lo scioglimento del FLS, il fronte per la liberazione del Sahara, sponsorizzato dal Marocco, nel 1969, dopo che il Marocco ebbe riconquistato la piccola enclave di Ifni dalla Spagna. Non a caso, re Hassan II intratteneva cordialissime relazioni con la dittatura di Franco.

Nel 1974, il regime spagnolo, però, era in grave crisi sul fronte interno. In tutta la penisola iberica, una situazione prerivoluzionaria si andava delineando a causa dell’azione di massa della classe operaia rischiando di trasformare la lotta per la liberazione dalla dittatura in un percorso verso la rivoluzione socialista. Di questo la classe dominante spagnola era chiaramente terrorizzata, temendo, inoltre, le conseguenze che la guerriglia nel Sahara avrebbe potuto avere sulla situazione interna, memore dell’esperienza portoghese, in cui la rivoluzione era stata scatenato proprio dal risentimento per la politica coloniale in Angola e Mozambico. Pertanto il regime concesse un referendum, che avrebbe dovuto tenersi nel 1975.

Dall’inizio degli anni ’60, la Spagna aveva utilizzato in parallelo due diverse strategie sul Sahara: da un lato, un settore del regime franchista, rappresentato da Carrero Blanco, era intenzionato a mantenere il controllo ed una presenza coloniale continuativa, convinto della lealtà della popolazione locale al regime spagnolo in quanto modernizzatore del paese e, per questo, fondò un partito saharawi moderato, il PUNS (Partito unito nazionale saharawi); dall’altro lato, un settore diverso del regime, più forte tra i militari, voleva una decolonizzazione controllata, in un processo che portasse al governo del paese da parte di settori filospagnoli, attraverso i quali si potesse continuare ad esercitare il controllo delle risorse naturali della zona, in primis i vasti giacimenti di fosfati e le pescose acque della costa. In ogni caso, le strategie convergevano sulla necessità di creare una specifica identità popolare saharawi, in modo da svuotare di contenuto le pretese territoriali marocchine o l’emergere di un movimento nazionalista filomarocchino.

La crisi rivoluzionaria in Marocco

Questo era del tutto inaccettabile, evidentemente, per il regime marocchino che, dal canto suo, era in notevoli difficoltà per una serie di movimenti di massa e di scioperi, fino a subire due tentativi di colpo di stato nel ’71 e nel ’72. L’ondata della protesta popolare era cominciata nel ’65 con la repressione di una manifestazione studentesca il 22 marzo, che provocò un’insurrezione a Casablanca il giorno seguente, che si allargò rapidamente a tutte le città ed i maggiori centri di provincia. Il movimento fu represso al prezzo di centinaia di morti ammazzati dall’esercito, oltre 3000 arresti, lo scioglimento del parlamento e la dichiarazione dello stato d’emergenza. Tuttavia, la repressione non azzerò il movimento, in cui gli studenti, medi ed universitari, ebbero un ruolo determinante, e che riuscì a coinvolgere in maniera determinante anche il movimento operaio in tutta una seri scioperi, sempre più frequenti e molto combattivi.

Nel ‘68, 7mila minatori di Khouribga furono protagonisti di uno sciopero durissimo; due anni dopo, insurrezioni contadine si estesero a Gharb, Sous, Haouz ed altre zone; nel ‘71, i dirigenti sindacali ammettevano di non riuscire assolutamente a controllare od indirizzare l’ondata di scioperi che vedevano ancora protagonisti i minatori di Khourigba, i tessili ed altre categorie di lavoratori in tutto il paese; nel marzo ’73, infine, scoppiarono rivolte armate a Khenifra (Atlante centrale) e Goulmina (Atlante settentrionale). Tutto questo oltre ai due colpi di stato di cui dicevamo.

Si producevano, insomma, tutta una serie di condizioni per le quali la situazione era del tutto esplosiva. A dieci anni dall’indipendenza, il paese era governato in maniera schiettamente autoritaria dalla monarchia e le richieste sociali più impellenti delle masse popolari non erano in alcun modo state soddisfatte. A peggiorare le cose arrivavano anche una grave crisi economica ed i fallimenti delle politiche economiche del regime, che non facevano altro che convogliare enormi masse di denaro dai lavoratori e dai contadini al re.

Inoltre, tra i giovani specialmente, ebbe enorme rilievo un altro fattore, ossia la sconfitta dei Palestinesi nella guerra del ’67 che scatenò fortissime critiche alle dirigenze dei regimi borghesi arabi, le scissioni nel movimento di liberazione nazionale palestinese e la formazione del FPLP (Fronte popolare per la liberazione della Palestina) e del DFLP (Fronte democratico per la liberazione della Palestina), su posizioni maoiste ispirate dalla rivoluzione culturale, l’ondata di radicalizzazione degli studenti in tutto il mondo dopo il maggio francese nel ‘68. Tutto questo ebbe fortissimo impatto sul clima politico marocchino: nel ’70, sia l’UNFP che il PLS (Partito per la liberazione socialista, il nuovo nome adottato dal partito comunista marocchino) subirono pesanti scissioni a sinistra, composte principalmente da giovani che andavano verso il maoismo, fondando i gruppi Ila al Amam (Avanti) ed il Movimento 23 marzo. In realtà, lo stesso UNFP fu fortemente attraversato dall’influenza dell’apparente radicalismo maoista.

Hassan II aveva un disperato bisogno di utilizzare la carta del nazionalismo per distrarre l’attenzione delle masse e, allo stesso tempo, assicurarsi il controllo delle risorse del Sahara occidentale. Di fatto, tutti i partiti politici marocchini, sia di destra che di sinistra, assunsero in toto la parola d’ordine del regime a proposito della “integrità nazionale del Marocco”. Assunsero queste posizioni anche l’UNFP ed il PC che, in omaggio alla teoria delle due fasi, assunse la posizione più umiliante nel seguire la linea del re su ogni singola questione, fino a cambiare nome un paio di volte cedendo alle pressioni del palazzo.

La sola organizzazione che si rifiutò di unirsi al coro sciovinista fu il gruppo maoista Ila al Amam che mantenne la richiesta dell’autodeterminazione per il popolo saharawi. Questo punto non è senza importanza, nella misura in cui Ila al Amam egemonizzava il potente sindacato degli studenti UNEM (Unione degli studenti del Marocco) ed aveva anche alcune posizioni di forza nel movimento operaio. L’altro gruppo maoista, il Movimento 23 marzo, portava avanti una linea esattamente opposta, giustificando l’offensiva marocchina nel Sahara occidentale dal punto di vista della rivoluzione nazionale. Uno dei principali dirigenti di Ila al Amam era Abraham Serfarty, un ingegnere minerario che, licenziato per aver sostenuto gli scioperi dei minatori, fu arrestato nel ’74, processato per alto tradimento tre anni dopo, infine espulso dal Marocco nel ’91 perché ritenuto non marocchino. Qualche anno fa ha potuto finalmente far ritorno in Marocco, nominato dal re a capo delle attività di supervisione delle esplorazioni petrolifere. Il Movimento 23 marzo, in seguito, diventò un partito legale, chiamato OADP (Organizzazione per l’azione democratica e popolare), oggi pedina di quella farsa legale che è il sistema parlamentare marocchino. Il successo del re nel ricompattare tutta la nazione attorno alla monarchia contribuì a schiacciare le organizzazioni rivoluzionarie dell’epoca.

La crisi del Sahara occidentale e la Marcia Verde

Per esercitare il massimo delle pressioni sulla Spagna, Hassan II rispolverò anche delle pretese sulle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, lanciando una campagna di azioni di disturbo ai pescherecci spagnoli, giungendo perfino a creare, nei primi mesi del ’75, un gruppo guerriglieri saharawi filomarocchini, il FLU (Fronte per l’unità e la liberazione) per compiere incursioni oltre confine. Infine, firmò un trattato segreto con la Mauritania, che regolava la spartizione dal Sahara occidentale tra i due stati.

In tutto questo, il regime spagnolo, fortemente indebolito dalla crescente ondata rivoluzionaria interna, non riuscì a far fronte alle pressioni marocchine e di fatto non ebbe alcuna strategia complessiva sulla questione. Quello che apparve chiaro da subito fu che il referendum promesso dall’ONU non si sarebbe mai tenuto, perché il Marocco avrebbe senz’altro invaso il paese, e la Spagna non era certo disposta a difendere con le armi il diritto di tenere un referendum. Data la situazione, pertanto, il PUNS si dissolse, e con esso il tentativo spagnolo di una soluzione controllata.

A questo punto, allora, il regime spagnolo giocherellò con l’idea di passare il potere al Polisario, in un disperato tentativo di mantenere il controllo delle risorse naturali della zona all’indomani dell’indipendenza. In concreto, ci fu uno scambio di prigionieri e l’inizio di un negoziato per il passaggio della sovranità.

Alla fine, si venne a capo del groviglio d’interessi e rivendicazioni nel luglio del ’75, quando la Corte internazionale di giustizia dell’ONU stabilì che le pretese marocchine non erano da ritenersi fondate. In tutta risposta, Hassan II annunciò che una “Marcia Verde”, un corteo di 350mila musulmani che reclamavano l’“integrità territoriale” del Marocco, avrebbe occupato la scena politica per risolvere la questione. Come in ogni altro frangente, le risoluzioni dell’ONU non significano niente a meno che qualcuno non sia disposto a difenderle con le armi. La sfida marocchina non poteva venire in un momento peggiore per la Spagna di Franco: il movimento di massa si andava facendo sempre più forte ed ostile al regime ed il 17 ottobre Franco iniziò la sua agonia, morendo, alla fine, il 20 novembre.

Dunque al regime spagnolo non erano rimaste altre strade percorribili e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era una guerra con il Marocco. Perciò, anche a causa delle pressioni francesi a statunitensi, firmò un accordo segreto con Hassan II in cui, in cambio della tranquillità per Ceuta e Melilla, si cedeva il Sahara occidentale, pur mantenendo una quota del 35% nello sfruttamento dei giacimenti di fosfati ed un congruo indennizzo per il restante 65%. La marcia verde si rivelò, infine, poco più di un’esercitazione, concordata con la Spagna, per evitare ulteriori conflitti in futuro.

Il ritiro spagnolo

Pertanto gli spagnoli ritirarono le loro truppe mentre Marocco e Mauritania inviarono le loro. L’occupazione marocchina fu altrettanto brutale quanto quella che porto alla repressione della rivolta del Rif nel ’57. Il Marocco si accaparrò i ricchi giacimenti di Bou-Craa e le due città principali: Smara ed El Ayoun. La Mauritania non ottenne molto più di una striscia di deserto e la terza città: Villa Cisneros. Nel periodo di transizione tra il ritiro spagnolo e l’arrivo degli altri due eserciti, il Polisario conquistò la maggior parte degli insediamenti minori riuscendo a tenerli per qualche mese, finché non furono costretti a ripiegare in esilio in Algeria, nel campo profughi di Tindouf.

L’Algeria vide nell’espansionismo marocchino una chiara minaccia alla propria integrità territoriale, perciò sostenne apertamente il Polisario fin dall’inizio. In realtà, tutto questo s’inscrive anche nel quadro generale più ampio della guerra fredda. Il segretario di stato USA dell’epoca, infatti, Henry Kissinger, fu chiarissimo sulla questione sostenendo che “gli USA non permetteranno la nascita di un’altra Angola sulle sponde orientali dell’Atlantico”, mentre l’ambasciatore USA in Marocco, scrisse nelle sue memorie che la posizione USA era che le Nazioni Unite non facessero nulla per limitare il successo marocchino nel Sahara occidentale, “un compito che - notava - ho portato a termine non senza considerevole successo”.

Il regime marocchino era il più valido e fedele alleato dell’imperialismo occidentale nella zona, mentre quello algerino, orientato a sinistra, era sostenuto dall’Unione Sovietica. In ogni caso, non è irrilevante ricordare come l’interesse primario della politica estera sovietica è sempre stato quello della difesa degl’interessi della burocrazia stalinista, non certo quelli della rivoluzione internazionale. Essa non ha mai voluto alcun conflitto diretto con gl’interessi dell’imperialismo USA, per cui ogni volta che un regime stalinista prendeva il potere in qualche angolo del mondo, fornivano l’appoggio minimo indispensabile, e solo dopo essere stati messi di fronte al fatto compiuto. Di fatto, né l’Unione Sovietica, né nessun altro dei paesi del blocco orientale riconobbero mai la Repubblica Democratica Araba Saharawi, che il Polisario proclamò nel ’76 all’indomani del ritiro degli spagnoli.

L’esilio delle forze del Polisario e con esse di 50mila saharawi, segnò l’inizio di una lunga Guerra. In una prima fase fu condotta principalmente contro la Mauritania, il cui piccolo esercito fu completamente messo allo sbando, dovendo difendere un milione di km quadri di territorio. Le incursioni del POLISARIO riuscirono a penetrare profondamente nel territorio mauritano, giungendo anche fino alla capitale Nouachkott un paio di volte, danneggiando seriamente l’industria estrattiva del ferro, da cui il paese è completamente dipendente.

L’imperialismo francese venne in soccorso del regime mauritano, e perfino il Marocco inviò novemila soldati per difenderlo. La guerra scaraventò il paese in una tremenda crisi economica, peggiorata ulteriormente dal crollo dei prezzi del ferro, e dal contemporaneo aumento di quelli del petrolio, sui mercati internazionali. In più la guerra era assolutamente impopolare tra i Mori mauritani, la maggioranza della popolazione, che considerava la guerra come uno scontro fratricida. Nel luglio del ’78 la combinazione di un colpo di stato e del movimento popolare contro il regime riuscì a rovesciarlo. Il neoinsediato Comitato Militare per la Ricostruzione Nazionale firmò un trattato di pace con il Polisario cedendo la parte mauritana del Sahara occidentale. Qui va rilevato chiaramente come il solo grande successo del Polisario si ottenne non tanto grazie alle operazioni militari quanto al processo rivoluzionario che andava sviluppandosi in Mauritania. Tuttavia, non appena le truppe mauritane si ritirarono, il loro posto fu preso da quelle del Marocco.

La guerra continuò per alcuni anni senza che alcuna delle due parti riuscisse a prevalere. Nel 1980, l’esercito marocchino cominciò a costruire un muro difensivo nel deserto per scongiurare le incursioni del Polisario nel Sahara occidentale, particolarmente nel nord dell’area dove c’erano i giacimenti di Bou-Craa. La costruzione del muro proseguì fino a proteggere la maggior parte del confine, per un totale di 2700 km di muro.

Le grandi potenze

Per tutta la durata della guerra, gli USA sostennero il Marocco ma, allo stesso tempo, cercarono di intrattenere relazioni anche con l’Algeria, infatti, dopo i primi anni di fervore rivoluzionario in cui non era chiaro se il regime algerino stesse andando fino in fondo verso l’abolizione del capitalismo l’instaurazione di un regime bonapartista proletario, l’Algeria era ormai un lido sicuro per il capitalismo, con la possibilità di farvi degli ottimi affari. Per questo motivo, tutti paesi occidentali coinvolti in qualche modo nel conflitto se da un lato sostenevano ed armavano il Marocco (che dopotutto era il loro principale alleato), dall’altro mantenevano sempre uno spiraglio aperto all’Algeria, cercando di fare buoni affari con essa. In ogni caso, nei momenti cruciali, essi erano comunque dalla parte del Marocco perciò, ad esempio, il partito socialista francese, al potere nei primi anni ’80, pur riconoscendo il Polisario, continuò a fornire armi al regime marocchino; allo stesso modo il partito di destra al governo in Spagna, l’UCD, riconobbe anch’esso il Polisario nel ’79, e lo stesso fecero i socialisti quando andarono al governo, ma entrambi i governi continuarono a ritenere più importanti i rapporti con il regime assassino di Hassan II.

Abbiamo già detto come la monarchia marocchina sia stata uno dei migliori alleati degli USA che si spendevano molto per garantirsi l’appoggio di questo paese molto importante, in chiave strategica, per l’accesso al Mediterraneo. Gli USA tennero basi militari vere e proprie in territorio marocchino fino al 1963, in seguito di limitarono a mantenere dei punti d’appoggio e comunicazione per la marina militare. Nel 1982 il Marocco concesse la possibilità di utilizzo delle sue basi aeronautiche ad eventuali forze d’intervento rapido statunitensi, possibilità che fu ampiamente utilizzata in occasione della prima guerra del golfo, nel 1991. La monarchia alawita ha fornito anche altri preziosi servigi agli imperialismi francese e americano, ad esempio nei successivi interventi nello Zaire, nel sostegno alla politica imperialista sulla questione palestinese ed in generale sul rapporto tra Israele ed il mondo arabo. Dal canto suo, anche l’Unione Sovietica, nonostante avesse ottimi rapporti con il regime algerino, non esitò a firmare accordi con il Marocco, assicurandosi anch’essa forniture di fosfati dal Marocco. La guerra fredda ebbe dunque un ruolo nel conflitto, specialmente nei primi anni della guerra, tuttavia alla base di quel confronto rimaneva la contesa tra Algeria e Marocco per la supremazia nel Maghreb.

Il ruolo della Libia

Il regime libico di Muhammar Gheddafi, all’inizio della guerra, sostenne il Polisario, in virtù dei propri sforzi per diffondere la “rivoluzione araba”. Tuttavia, nel 1984, la Libia decise che la rivoluzione non era necessariamente il modo più efficace di ottenere questa forma di unificazione araba tutta particolare, per cui smise di sostenere il POLISARIO e firmò un “accordo unitario” con il Marocco. In realtà l’accordo era essenzialmente in chiave anti-algerina, perché alla Libia era stato opposto il veto, da parte algerina, ad entrare a far parte del trattato di “pace e concordia” del Maghreb, firmato l’anno precedente da Algeria, Tunisia e Mauritania. Inoltre, la Libia vantava pretese territoriali su una striscia desertica a confine con l’Algeria. In più, grazie all’accordo con il Marocco, Gheddafi scongiurava l’invio di truppe marocchine in Ciad, in sostegno al regime di quel paese contro i ribelli, sostenuti dalla Libia stessa. Da tutto questo intrecciarsi d’interessi, dall’abbandono del Polisario da parte della Libia e della nuova alleanza con il Marocco si possono trarre due insegnamenti fondamentali. In primo luogo, l’eredità di confini disegnati a tavolino dalle potenze coloniali, in particolare i francesi, non può essere superata da nessuno dei regimi arabi, nemmeno quelli più nazionalisti, nonostante non facciano altro che ripetere il principio dell’unità del Maghreb. Questo compito può essere affrontato solo nell’ambito della lotta per il socialismo. In secondo luogo, per tutti costoro la lotta del popolo saharawi non è nient’altro che uno strumento, merce di scambio nelle loro relazioni, ed in questo non differisce minimamente nemmeno il regime algerino.

Le relazioni tra Algeria e Marocco

In Algeria e Marocco è sempre stato vivo il sentimento che i due popoli siano stati arbitrariamente separati dal colonialismo francese e spagnolo. Una delle prima organizzazioni nazionaliste a svilupparsi in Alegria si chiamava “Stella del nord Africa” (Etoile nord-africaine). Quando la Francia fu costretta a cedere la sovranità ai suoi protettorari marocchino e tunisino alla metà degli anni ’50, l’Esercito di liberazione nazionale algerino (ALN) installò proprie basi in entrambi i paesi e molti marocchini e tunisini morirono nella lotta al fianco dei loro fratelli algerini. Insomma, la gran parte della prima generazione di leader nazionalisti chiaramente credeva nell’idea di un Maghreb indipendente ed unito.

Dopo che l’Algeria ebbe ottenuto la propria indipendenza, era nello spirito di molti la sensazione che il processo rivoluzionario non si sarebbe fermato fin quando la monarchia marocchina, semifeudale, chiaramente schierata con l’imperialismo, fosse rovesciata. Il presidente algerino Houari Boumedienne lo sosteneva apertamente: “I nostri fratelli marocchini si aspettano che noi li aiutiamo a liberarsi di una monarchia feudale al soldo dell’occidente”. Era inevitabile, dunque, che questa si sentisse minacciata dallo spirito rivoluzionario e delle misure che venivano prese in Algeria (ad esempio la riforma agraria, il linguaggio antimperialista, la sostanziale nazionalizzazione dell’economia, il socialismo arabo), perciò, nel 1963, scatenò una breve guerra contro l’Algeria. E’ rilevante notare che i partiti marocchini di destra, e particolarmente Istiqlal, sostenevano la monarchia, mentre la sinistra, l’UNFP si opponeva alla guerra. Il suo leader Ben Barka, in esilio in Algeria, non perdeva occasione per denunciare “l’aggressione della rivoluzione algerina da parte della monarchi feudale marocchina”. Tutta la dirigenza dell’Unfp fu arrestata, in quel frangente, e Ben Barka fu rapito ed ucciso due anni dopo a Parigi, da agenti marocchini in collaborazione con i servizi segreti francesi. Tra gli altri timori, la monarchia aveva anche quello di uno spostamento a sinistra di alcuni settori delle movimento nazionalista nelle forze armate, che potesse trarre ispirazione dall’esempio algerino, ad esempio alleandosi con l’Unfp. Questo timore non era certo infondato, tanto che il colpo di stato del ’71 aveva proprio l’obiettivo d’instaurare la “Repubblica popolare del Marocco”.

Col passare degli anni, il conflitto tra i due paesi smise di essere basato su due modelli di sistema diversi perché il fervore rivoluzionario algerino scemò progressivamente, prima con il colpo di stato del ’65 contro Ben Bella, poi con la morte di Boumedienne, il tutto aggravato dal rallentamento dell’economia, perciò la rivoluzione algerina non ebbe più elementi destabilizzanti per il regime marocchino. La guerra di questo contro il Polisario si andava facendo sempre più costosa (e praticamente impossibile a vincersi) fin quando quest’ultimo era sostenuto dall’Algeria. Hassa II era costretto a mantenere un enorme esercito di 140000 uomini nel deserto per contrastare non più di 10000 guerriglieri del Polisario. Il costo della guerra divenne un peso insostenibile per l’economia marocchina, un peso che alcune stime fanno ammontare fino ad un milione di dollari al giorno.

Nel 1980 entrambi i regimi si trovavano a fronteggiare rivolte di massa dei settori della popolazione più poveri contro la disoccupazione ed il carovita. Le fiammate più alte si levarono in Marocco nell’81 e nell’84. Tutto questo costrinse, di fatto, i due paesi a cercare un riavvicinamento. I primi incontri diplomatici si ebbero nel 1983 e nel 1987, l’anno dopo i due paesi ripresero ad avere relazioni normali, fino a giungere, nel 1989, alla fondazione dell’unione del Maghreb arabo, insieme a Libia, Mauritania e Tunisia. Tre anni dopo, l’inizio della guerra civile algerina, scatenata dalla vittoria dei fondamentalisti del Fis (Fronte islamico di salvezza) alle elezioni amministrative, indebolì ancora di più il sostegno dei generali algerini al Polisario.

Quest’ultimo non ne uscì senza conseguenze: dopo vent’anni di guerra nel deserto i suoi dirigenti si resero conto che ancorché potessero fare enormi pressioni all’esercito marocchino, non potevano in alcun modo vincere la guerra, tanto più se gli veniva a mancare il sostegno dell’Algeria. Dunque la strategia fondamentale del Polisario, ossia quella di appoggiarsi sui regimi dei paesi confinanti, la Libia, l’Algeria, e di portare avanti una guerra di guerriglia non aveva portato nessun risultato. In più, nel periodo che portò al crollo dello stalinismo, il Polisario abbandonò progressivamente ogni riferimento al socialismo o alla rivoluzione, cercando sempre di più di percorrere vie diplomatiche per dare uno sbocco positivo alla loro lotta.

Nel 1986 iniziarono negoziati di pace, sotto l’auspicio dell’Onu, e nel 1998 Marocco e Polisario si accordarono su un piano di pace condiviso. Nonostante sembrasse che non si frapponessero altri ostacoli ad una soluzione pacifica e negoziata della questione, due fattori principali hanno impedito che questo avvenisse. Da un lato, infatti, tutte le potenze coinvolte vogliono assicurarsi il controllo delle miniere di fosfati e della pesca nelle acque territoriali, dall’altro la monarchia marocchina si è basata così tanto sulla questione nazionalista che oggi fare concessioni sul Sahara occidentale potrebbe alienarle il sostegno di ampie fasce della popolazione conducendo, potenzialmente, alla sua caduta.

Ed il referendum?

Nel 1991 si firmò un accordo che prevedeva il ritiro parziale delle truppe marocchine, lo stazionamento di quelle rimaste nei loro acquartieramenti, il graduale ritorno dei profughi da Tindouf, l’invio di una forza di monitoraggio Onu (la Minurso) ed infine un referendum sull’autodeterminazione da tenersi l’anno successivo. Il referendum non si è ancora tenuto, ed anche l’Onu oggi sostiene che non si terrà più. Che cosa è successo nel frattempo?

La strategia del Polisario nel percorso di avvicinamento al referendum si centrava completamente, ancora una volta, sulle mosse diplomatiche. Il loro obiettivo era quello di dividere gli USA dalla Francia ed ottenere una qualche forma d’indipendenza contando sulle garanzie statunitensi, prestate in cambio dell’accesso alle risorse naturali, privilegiato per l’imperialismo americano. Nei fatti, la tragedia politica dei dirigenti del Polisario arrivò al punto di provare convincere gli USA che, per la monarchia marocchina, il miglior modo per mantenersi in sella era quello di cedere il Sahara occidentale! Costoro sarebbero stati disposti ad avallare il dominio dittatoriale del regime reazionario marocchino su milioni di fratelli e sorelle, solo per aver riconosciuta un’indipendenza formale nella quale, tra l’altro, loro non sarebbero stati altro che gli agenti locali dell’imperialismo USA! Per inciso, questa posizione ricorda per certi aspetti quella del PKK curdo nei confronti della Turchia negli ultimi tempi, in ogni caso è il prodotto della concezione nazionalista piccolo-borghese che il POLISARIO ha sempre mantenuto fin dalla sua fondazione nel 1973. Non paghi delle profferte agli USA, i suoi leader hanno cercato d’ingraziarsi anche la classe dominante spagnola, mostrandosi più moderati e pronti al compromesso, cercando un occhio di riguardo presso di loro in cambio di alcune garanzie sui fosfati e sulle acque costiere. Purtroppo per loro, però, il Marocco è ben più importante come alleato strategico di quanto loro possano mai riuscire ad offrire all’imperialismo.

Lo scoglio più grosso contro il quale la questione del referendum si è infranta è stato quello di determinare chi avesse diritto al voto. Secondo gli accordi di pace, gli aventi diritto erano tutti coloro che potevano dimostrare di essere stati registrati nel censimento spagnolo del 1974 ed i loro discendenti. Il Marocco comprese subito che se questo fosse stato il criterio, il referendum avrebbe senz’altro sancito l’autodeterminazione, pertanto iniziò tutta una serie di manovre per impedire che questo avesse luogo e per bloccare l’intero processo. Dunque iniziarono ricordando che, in primo luogo, il censimento del ’74 non era una buona base di partenza perché aveva lasciato fuori molte tribù saharawi. Questo è senz’altro vero, abbiamo già riferito di come si stima che all’incirca il 45% del popolo saharawi non fu censito in quella occasione perché insediato in territori che erano oltre il confine, arbitrario, del Sahara spagnolo. E’ probabile che la maggior parte di questi, ormai integrati nel territorio e nella società marocchina, non votino per l’indipendenza, ed è per questo che il Marocco fa questo tipo di obiezione, non certo perché gli sta a cuore la massima democraticità del referendum.

In tutto il processo d’identificazione degli aventi diritto, l’atteggiamento USA ed ONU è stato sempre chiaramente incline alla posizione marocchina tanto che, nel ’95, perfino l’inviato USA presso la Minurso, Jack Rudy, rassegnò le dimissioni in polemica contro la sfacciata determinazione filomarocchina della missione. L’improvviso allargamento dei criteri per aver diritto al voto fu una delle ultime cose che Perez de Cuellar riuscì a fare da segretario dell’ONU, così che oggi tutti gli 88 sottogruppi dei dieci gruppi saharawi principali censiti nel ’74 possono partecipare al referendum, anche se molti di questi non furono censiti allora. Il problema successivo riguarda l’individuazione dei singoli votanti: secondo il Polisario sono validi solo quelli rilasciati dalle autorità coloniali spagnole e, ma solo in casi eccezionali, testimonianza orali degli sceicchi degli 88 sottogruppi, mentre il Marocco sostiene che anche i documenti rilasciati dalla sua amministrazione siano validi.

In nessuno dei due casi il punto è quello della tutela della democrazia, il nodo centrale resta quello che ognuna delle parti vuole che l’esito del referendum sia quella a lei più congeniale. La questione dei centomila marocchini insediati nel Sahara occidentale, inoltre, non può risolversi solo con il fatto che siano stati utilizzati strumentalmente dal Marocco in chiave politica. Ancorché questo sia effettivamente il caso, quanto democratico sarebbe negare a queste persone l’esercizio dei diritti democratico, esattamente come nel caso delle nuove repubbliche baltiche in cui ai russi sono negati i diritti politici?

Farse e ritardi

Dunque tutto il processo d’identificazione dei votanti si è risolto in farsa, una commedia in cui ognuna delle due parti accredita e smentisce sceicchi a piacimento. Alla fine, a Houston nel ’97, tutte le parti in causa si accordarono su un percorso di accelerazione del processo d’identificazione dei votanti che tentasse di smussare le controversie e James Baker, l’allora segretario di stato americano, fu nominato incaricato speciale delle Nazioni Unite per il Sahara occidentale. La nomina di un pezzo così grosso era il segnale chiarissimo che gli Usa fossero interessati ad una soluzione rapida della faccenda. Questo perché gli Usa avevano interessi forti in Algeria, volevano in una maniera o nell’altra la loro parte delle risorse naturali del paese, nonché erano interessati ad una qualche forma di stabilità nell’intera regione. Il problema è che questo non si può ottenere senza scontentare il principale alleato, il Marocco. I dirigenti del Polisario facevano affidamento sulla “buona volontà” del rappresentante Usa. Tanto che nel ‘97, il capo dell’organizzazione, Mohammed Abdel Aziz, dichiarò: “Il signor Baker è uomo molto capace e coraggioso … Baker ha detto chiaramente che nel suo mandato nell’amministrazione Bush, gli USA rispetteranno e faranno rispettare il diritto internazionale”. Dalla guerriglia alla diplomazia del “nuovo ordine mondiale” in soli 23 anni!

Al 2000, la Minurso era riuscita ad identificare 86381 aventi diritto al voto su un totale di 147249 richiedenti; di questi, 40000 sono quelli dei campi profughi del POLISARIO in Algeria e Mauritania, gli altri sono saharawi che vivono nel Sahara occidentale, che è molto probabile votino per l’indipendenza. Il regime marocchino sa bene che se si votasse così, l’esito del referendum sarebbe certamente a favore dell’indipendenza, allora ha fatto in modo di far presentare i ricorsi di 79mila persone cui è stato negato il diritto al voto, più altri 65000 membri dei gruppi “contestati” che vivono in Marocco (dei quali solo 2000 sono stati ammessi al voto), per un totale di circa 130mila ricorsi che avrebbero richiesto almeno tre anni per essere esaminati. Il percorso referendario, insomma, era chiaramente in frantumi.

Nel febbraio 2001, il Polisario ne aveva abbastanza di tutte queste macchinazioni riguardo al referendum e dichiarò che se la Parigi-Dakar fosse passata nel suo territorio senza il loro permesso, avrebbero ripreso le ostilità, riflettendo in questa forma l’enorme frustrazione dei saharawi che da dieci anni, nei campi profughi, attendono il giorno fatidico di questo referendum. All’ultimo momento, quanto i combattenti erano già nelle loro posizioni assegnate, pronti a riprendere la guerra, le pressioni dell’Algeria costrinsero il Polisario a fare marcia indietro e bloccare l’offensiva. Questo episodio illustra chiaramente in che posizione si trovano i dirigenti del Polisario dopo vent’anni di guerriglia: sono ostaggi del loro ospite, l’Algeria, un regime che ha seri problemi interni suoi, e non ha nessuna intenzione di aggiungerne altri, in specie una nuova fase di attriti sul confine orientale. A sottolineare, infine, l’isolamento del Polisario, va ricordato che il suo rappresentante a Nouakchott è stato espulso nel febbraio del 2000 dopo che questi aveva accusato il governo mauritano di non essere neutrale nel conflitto sul Sahara occidentale.

Di primaria importanza è anche il fatto che il regime algerino, sul quale il Polisario continua fare affidamento, è oggi completamente diverso da quello appena uscito dalla rivoluzione nei primi anni ’60. Il regime di Boumedienne, infatti, era nazionalista borghese, ma con un notevole prestigio rivoluzionario, che utilizzava una fraseologia molto radicale e che fece anche delle importanti riforme economiche, ma oggi il regime bonapartista algerino mostra la corda rispetto ai limiti dello sviluppo capitalista. La crisi economica degli anni ’80 lo ha reso estremamente impopolare ed ha dato il via a numerose rivolte, e diffuse. Il fallimento del nazionalismo borghese apparentemente di sinistra ha dato spazio all’affermazione dell’integralismo islamico negli anni ’90. Oggi la spinta del fondamentalismo come via d’espressione della rabbia e del malcontento popolari si è sostanzialmente esaurita. La rivolta della Kabylia [regione berbera, a nord ovest dell’Algeria, a est di Algeri, Ndt] nella primavera-estate del 2001 ha segnato la nascita di una nuova ondata di mobilitazione dei lavoratori e dei giovani contro il regime dei generali algerini, rigidamente fedeli ai diktat del Fondo Monetario Internazionale sulle privatizzazioni ed i tagli allo stato sociale, sebbene quel movimento sia stato duramente represso.

Su tutti questi stravolgimenti della politica algerina, i dirigenti del POLISARIO sono rimasti in colpevole silenzio, senza criticare mai alcuna delle posizioni del regime algerino. D’altra parte non avrebbe potuto essere altrimenti, nella misura in cui il loro movimento si basa essenzialmente sull’appoggio dell’Algeria, un regime capitalista assassino di cui sono diventati fedeli alleati e che, però, è odiato profondamente dal popolo algerino e che se riesce a tenersi in piedi lo fa solo grazie ad un elevato livello di brutale repressione.

L’Onu si è finalmente resa conto di una cosa che avrebbe dovuto esserle ben chiara sin dall’inizio, e cioè che il referendum non si farà fin quando non sia il Marocco a volerlo. In un rapporto del giugno 2001, Kofi Annan raccomandava al consiglio di sicurezza il congelamento di tutto il processo per studiare una nuova proposta: cinque anni di autonomia limitata e potere condiviso alla fine del quale si svolgerebbe il referendum sullo status di quei territori, mentre elezioni legislative si sarebbero dovute svolgere subito sulla base elettorale degli 86mila saharawi accertati e, dopo cinque anni, tutti i residenti nel territorio del Sahara occidentale avrebbero potuto partecipare al referendum.

Il Polisario ha immediatamente rifiutato il piano, noto come “La terza via”, giudicandolo una nient’altro che una farsa, richiedendo lo svolgimento del referendum sulla base degli accordi già presi in passato. La classe politica marocchina è divisa: alcuni settori del regime, tra cui il leader maoista Abraham Serfaty, da poco rientrato nel paese, sono favorevoli alla proposta Annan, convinti che, in ultima analisi, questa proposta possa essere ben utilizzata in favore del Marocco, altri invece, vi si oppongono strenuamente, temendo che qualunque concessione sul Sahara occidentale possa dare il via ad un effetto destabilizzante generalizzato sul regime.

Il problema principale per il Polisario è che non ha alternative: o accetta quanto gli viene proposto o si ritorna alla guerra, e questa volta, molto probabilmente, senza il sostegno dell’Algeria; un vero disastro. E non finisce qui, perché contestualmente all’annuncio della “terza via”, l’Onu ha annunciato che i soldi per il mantenimento del campo profughi di Tindouf stanno finendo, dunque un chiaro invito ad accettare la proposta. I comunicati stampa del Polisario del giugno 2001, in cui si rifiuta la “terza via”, sono un chiaro segnale dell’impotenza dei suoi dirigenti, pieni di lagnanze ed appelli alla “legalità internazionale”, a “tutti coloro che hanno a cuore il rispetto della giustizia e della legge”, perché “denuncino il gioco vergognoso che il Marocco ed il suo alleato, la Francia, continuano a portare avanti … e aiutino a salvare la legalità internazionale e la pace”.

É possibile la divisione del Sahara occidentale?

Il rifiuto, nettissimo, da parte di Algeria e Polisario di prendere in considerazione la “terza via” ha portato ad un nuovo rapporto Onu, nel febbraio 2002. Il documento è piuttosto interessante, scritto con un’insolita franchezza. Vi si descrive nel dettaglio la situazione di stallo attuale concludendo che “è molto improbabile che il piano di soluzione, così come è, possa essere messo in pratica e condurre ad una soluzione rapida, stabile e condivisa della questione del Sahara occidentale”. Dunque sembrerebbe piuttosto chiaro che il referendum non si farà.

A questo punto, si legge nel documento, le opzioni proposte sono quattro. La prima è quella di continuare con il vecchio piano e fare il referendum ma, si legge, “il Marocco ha già fatto sapere che non è che d’accordo a che si porti avanti una soluzione non condivisa; che l’ONU non potrebbe riuscire a far tenere un referendum in maniera limpida, che desse risultati accettabili da ambo le parti e, in ogni caso, che l’ONU non possiede nessun meccanismo in grado di far applicare effettivamente i risultati del referendum”. Il corsivo, nostro, è molto importante, e sottolinea le differenze tra Sahara occidentale Timor Est: si lascia chiaramente intendere che il Marocco ha la forza militare per impedire che il referendum si svolga o che il risultato resti lettera morta, e l’ONU non può farci nulla. Tutte le chiacchiere sulla “legalità internazionale” qui sono chiaramente smascherate: in altre parole, quelle utilizzate dai rappresentanti Onu al Polisario, “non si può paragonare questa situazione a quella di Timor Est perché qui non c’è nessuna Australia pronta ad intervenire”.

La seconda opzione sarebbe una revisione, in qualche modo, della terza via. L’Onu non sembra molto ottimista sulla effettiva realizzabilità di questo ma, quanto meno, “potrebbe rendere possibile la riduzione della Minurso”. Di fatto, s’intravede in tutto il rapporto la pressione USA sul fatto che troppo denaro sia stato sprecato su una missione che non ha prodotto alcun risultato e che, quindi, sarebbe il caso di chiudere, ponendo fine allo sperpero di risorse dei burocrati dell’Onu.

La terza opzione è una proposta nuova che contempla la divisione del Sahara occidentale in due stati, una divisione che ricalchi, grosso modo, quella posta in essere tra Marocco e Mauritania nel ’76, con la differenza che la parte già della Mauritania oggi sarebbe governata dal Polisario. L’offerta non è malvagia per il Marocco, che manterrebbe la maggior parte dei fosfati sotto il suo controllo e due delle tre maggiori città, e nemmeno per l’Algeria, che si garantirebbe uno sbocco sicuro sull’Atlantico. Il Polisario, quindi, sarebbe costretto ad accettare le briciole che cadono dalla divisone della torta trai potenti per paura di non ottenere un bel niente. Infatti, lo stesso rapporto cita le parole di James Baker che dice: “l’Algeria ed il Polisario dovrebbero essere pronti a discutere la soluzione politica della divisione dei territori del Sahara occidentale” ma, sia l’uno che l’altra, hanno pubblicamente opposto il loro rifiuto a questa opzione, anche se potrebbe essere che stiano solo facendo un gioco delle parti per provare ad ottenere qualcosa di più o, quanto meno, salvare la faccia. Questa soluzione, tra l’altro, andrebbe bene anche alla Spagna, perché lascerebbe nelle mani del Polisario le acque più pescose del sud del paese, un punto sul quale essa è sempre stata in conflitto con il Marocco, mentre il Polisario le ha già in qualche modo fatto intendere la possibilità si una soluzione vantaggiosa.

L’ultima opzione è riconoscere il completo fallimento delle Nazioni Unite, “accettando che dopo oltre undici anni di sforzi diplomatici e 500 milioni di dollari spesi, l’Onu non è in grado di risolvere la questione del Sahara occidentale”.

In tutto questo, l’aspetto più evidente è il totale fallimento della strategia e delle tattiche del Polisario in questi ultimi venticinque anni. Le loro politiche nei periodi di cessate-il-fuoco non sono altro che le logiche conseguenze di quelle dei periodi di guerra, mantenendo sempre un atteggiamento semplicemente nazionalista e appoggiandosi, necessariamente, su questo o quell’altro paese confinante. Alla fine, però, oggi nessun paese è più disposto a sostenerli per davvero, nonostante tutti i tentativi dei loro dirigenti di svendersi agl’interessi spagnoli e americani.

L’unica strada percorribile, e che abbia senso, è il ritorno alle lotte unitarie degli anni ’50 ed ancor prima, tra tutte le forze decise a contrastare l’imperialismo ed i suoi agenti locali, nella fattispecie la monarchia alawita marocchina. Solo legando gl’interessi del popolo saharawi a quelli dei loro fratelli algerini e marocchini si potrà ottenere la tutela dei diritti nazionali dei saharawi. In entrambi i paesi confinanti la situazione è assolutamente esplosiva: delle rivolte in Algeria abbiamo già detto ed in Marocco ci sono tutti gli elementi per i basta davvero una scintilla a che si sviluppi un movimento del tutto simile. La monarchia, infatti, dopo la morte di Hassan II non è forte come un tempo, ed è stata costretta a mettere al governo i “socialisti” dell’USFP per contrastare una situazione economica disastrosa, che porta all’emigrazione continua di centinaia di migliaia di marocchini verso l’Europa.

La sola via d’uscita realistica è la lotta rivoluzionaria nel Sahara occidentale stesso e nelle università marocchine dove studiano i giovani saharawi: una lotta centrata su lavoro, pane e democrazia, e non solo sui diritti nazionali, che sia in grado di coinvolgere le masse operaie e contadine ed i giovani marocchini, gli unici che possono davvero sconfiggere la monarchia, che opprime sia loro che i saharawi.

Un punto che sembra chiaro è che se prima della guerra non c’era il senso di una separata identità nazionale del popolo saharawi e nemmeno una così forte aspirazione all’indipendenza, dopo vent’anni di una guerra terribile questa identità è stata creata, e molto forte, e questo è un punto che deve essere tenuto ben presente. Tuttavia, allo stesso tempo, bisogna essere estremamente chiari sul fatto che il rispetto dei diritti nazionali dei saharawi e l’autodeterminazione non si otterranno mai se non attraverso la lotta rivoluzionaria delle masse marocchine guidate dalla classe lavoratrice.

Sul referendum

Quale posizione i marxisti dovrebbe tenere nell’eventualità che l’ONU riesca effettivamente ad organizzare un referendum sull’autodeterminazione? Ancorché la cosa sembri molto improbabile, qualora ci fosse davvero, la posizione marxista non dovrebbe limitarsi alla scelta tra l’indipendenza o l’integrazione con il Marocco. I marxisti hanno il dovere di spiegare come stanno veramente le cose, ricordando quanto è avvenuto a Timor Est, invitando a non fidarsi delle Nazioni Unite. Se il risultato del referendum dovesse essere per l’indipendenza del Sahara occidentale, il Marocco semplicemente non l’accetterà, impedendo con le armi che venga posto in essere. A quel punto chi difenderà i diritti del popolo saharawi? L’Onu? Non scherziamo! Quello su cui bisogna spingere, lo ripetiamo ancora una volta, è l’alleanza con la classe lavoratrice marocchina, perché anche nell’estrema improbabilità che lo stato saharawi indipendente si abbia, questo non sarebbe altro che un’altra marionetta nella mani delle potenze imperialiste: questo è quanto i marxisti direbbero ai saharawi se mai fossero davanti all’eventualità del referendum.

Giugno 2002.