Summit Nato: la Cina nel mirino

Il summit della Nato del 28-30 giugno a Madrid si è svolto sullo sfondo della guerra in Ucraina. Nonostante tutte le chiacchiere sull’“unità”, la realtà è che si è aperta una profonda frattura fra gli Usa e l’asse franco-tedesco. Per la prima volta il nuovo documento di “Concetto strategico” della Nato definisce la Cina una “sfida sistemica”. Si tratta di un riconoscimento ufficiale del relativo declino dell’imperialismo Usa e della minaccia posta da una potenza in ascesa.

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Come sempre, il comunicato ufficiale del summit e le dichiarazioni pubbliche dei principali partecipanti sono carichi di spavalderia e ottimismo. Tutti hanno rimarcato lo stesso messaggio: unità. “Penso che possiamo tutti essere d’accordo che è stato un summit Nato storico”, ha detto il presidente statunitense Biden. “Siamo totalmente uniti”, gli ha fatto eco il primo ministro britannico Boris Johnson, che, al precedente summit del G7 in Germania, aveva fatto dell’ironia sul “mostrare i muscoli” a Putin. “Siamo fianco a fianco, in unità e solidarietà, e riaffermiamo il legame transatlantico duraturo fra le nostre nazioni”, dichiara pomposamente il comunicato ufficiale del summit.

Persino Macron e Johnson, che hanno passato mesi ai ferri corti a proposito dell’Ucraina, sono sembrati aver ritrovato un nuovo spirito di coesione. Il primo ministro britannico parrebbe avere accettato la proposta di Macron per una Comunità politica europea. Tuttavia, su questa così come sulle altre questioni che sono state discusse, se si va oltre i titoli dei giornali, si scorge il vero quadro delle cose, che non è di unità, tutt’altro.

Faccia a faccia con la Russia in Europa

Una delle questioni centrali discusse al summit, che ha anche dominato la recente riunione del G7, è stata naturalmente l’Ucraina. Su questo punto non c’è stata nemmeno l’ombra di unità. Certo, tutti i Paesi della Nato sono formalmente dalla parte di Kiev, ma li dividono differenze fondamentali sulla strategia che ne consegue. A darne chiara prova è stata, due settimane prima, la serie di visite da parte delle autorità europee, nel corso di due settimane.

I primi ad andare a Kiev sono stati Scholz, Macron e Draghi. Dietro le dichiarazioni ufficiali di pieno appoggio all’Ucraina nella guerra contro la Russia, era chiaro cosa si stesse discutendo davvero a porte chiuse. La Germania, la Francia e l’Italia premono per un negoziato che metta fine alla guerra, anche se ciò dovesse significare concessioni territoriali alla Russia. La ragione è che l’Europa dipende pesantemente dalla Russia per i rifornimenti energetici, fatto su cui Putin sta sapientemente facendo leva. Infatti, al precedente vertice del G7, le potenze mondiali non sono nemmeno riuscite ad accordarsi su una proposta degli Usa di mettere un tetto al prezzo del petrolio russo. La Germania non ne voleva sapere.

La visita di questa troika è stata quindi seguita da una visita a sorpresa di Boris Johnson, corso a Kyiv abbandonando importanti impegni in Gran Bretagna, dove era alle prese con una debacle elettorale in due elezioni suppletive. Qual è stata la ragione della sua visita? È chiaro come il sole che voleva riparare eventuali danni fatti dal trio europeo e assicurarsi che da parte di Zelenskij non ci fosse il minimo vacillamento. Il messaggio era chiaro: la guerra contro l’invasione russa deve andare avanti a qualsiasi costo e noi vi sosterremo; e alla Russia non deve essere permesso di emergere vittoriosa, perché sarebbe un duro colpo al prestigio dell’imperialismo Usa. Con questo comportamento, Johnson ha fatto l’agente di Washington (anche se persino negli Usa c’è sempre più preoccupazione riguardo l’andamento della guerra) e il cheerleader dei falchi in Polonia e negli Stati baltici.

Nessuna dichiarazione autocelebrativa della Nato, nessun concetto strategico potranno coprire queste divisioni, che nascono dall’impatto materiale della guerra sui Paesi dell’Ue, in particolare la Germania.

La guerra in Ucraina è stata usata per favorire il riarmo europeo e cementare la spinta della Nato verso est: la stessa strategia alla quale la Russia ha reagito invadendo l’Ucraina a febbraio.

Alla vigilia del summit di Madrid, il segretario generale della Nato, Stoltenberg, ha annunciato che il numero delle truppe che l’alleanza tiene in stato di “alta allerta” sarebbe stato aumentato da 40000 a 300000 unità, una mossa che ha descritto come “la più grande revisione della nostra difesa e deterrenza collettiva dalla guerra fredda”. In effetti, molto di tutto ciò doveva a sua volta produrre qualche titolo positivo sui giornali che dessero all’alleanza una parvenza di forza. Se si guarda ai dettagli, però, la vera portata di questa mossa si riduce.

Non sono stati dati dettagli su come la cifra dei 300000 sarebbe stata distribuita fra i diversi membri della Nato in Europa, colti di sorpresa dall’annuncio. Un funzionario della Nato, parlando anonimamente al Washington Post, ha detto che la cifra era “per il momento teorica”: “Non abbiamo ancora elaborato del tutto il concetto, dovremo fare di più per costruire il modello prima di poter capire quali dovranno essere gli impegni nazionali”. Il numero deriva dalle “forze a vari livelli di allerta”, ha aggiunto un diplomatico di alto livello a Politico. Di certo dell’idea stessa non si fa parola nel Comunicato ufficiale del summit, concordato dai membri della Nato a Madrid.

La vera decisione che è stata presa, modesta ma significativa, vede l’aumento del numero delle truppe Nato dislocate in via permanente negli Stati baltici e in Polonia. Questi ultimi, in origine, avevano richiesto di decuplicare i soldati Nato (da 5000 a 50000), l’apertura di basi permanenti e il dispiegamento di sistemi di difesa aerea e marittima. Gli impegni presi alla fine li hanno delusi. Il numero dei soldati verrà incrementato dal livello di gruppo da combattimento a quello di brigata (cioè da 3000 a 5000) in ciascun Paese. Successivamente è però emerso che avverrà “a rotazione”: in altre parole, il numero effettivo dei soldati vedrebbe di volta in volta un aumento quasi insignificante. Gli Usa, inoltre, apriranno un centro di comando permanente in Polonia.

Con questo non vogliamo dire che la Nato non vuole dare prova di forza davanti alla Russia, ma piuttosto che rivela i limiti di ciò che è in grado di fare in quanto a impegni presi, che costeranno denaro, parecchio denaro, nel medio e lungo termine. La questione del bilancio della Nato è da anni un tasto dolente fra gli Usa e i loro alleati europei, con costanti pressioni da parte di Washington affinché questi ultimi si accollino costi maggiori . L’obiettivo di spese per la difesa equivalente al 2% del Pil, stabilito da tempo, non è stato ancora raggiunto dalla maggioranza dei membri della Nato (19 su 29). Tra loro Germania, Italia, Canada e Francia.

Gli Usa reggono ancora il peso della spesa militare della Nato, con investimenti per la difesa tre volte superiori a quelli del resto dei Paesi Nato messi insieme. La guerra in Ucraina sta venendo usata in diversi Paesi, soprattutto la Germania, per approvare aumenti sostanziosi della spesa militare. In un periodo di crisi economica, ciò potrebbe diventare il fulcro della lotta di classe, via via che i lavoratori cominceranno a chiedersi perché i soldi per le armi si trovano, ma quelli per la sanità, l’istruzione e la casa no.

Nel frattempo, imponendo sanzioni sui trasporti russi verso l’enclave di Kaliningrad, la Lituania sta giocando a un gioco pericoloso, in quanto si tratta di un tema molto delicato. Benché la Lituania si giustifichi dicendo di stare semplicemente applicando alla lettera le sanzioni approvate dall’Ue contro il commercio russo, i tedeschi stanno facendo pressione perché lasci la presa. Non dimentichiamo che la Lituania era già stata costretta dalla Germania ad abbandonare i suoi toni bellicosi nei confronti della Cina. L’anno scorso, il Paese baltico aveva deciso di provocare i cinesi aprendo un ufficio di interesse commerciale per Taiwan. Pechino ha usato le leve che ha a disposizione sulla Germania per fermare tutto, avvertendo che se non si fosse abbandonata la decisione di usare il nome “Taiwan” per l’ufficio, le aziende tedesche attive in Lituania avrebbero subìto sanzioni in Cina. Le aziende tedesche sono state così costrette ad annunciare che avrebbero lasciato la Lituania, e il piccolo Stato baltico alla fine ha offerto le sue scuse pubbliche alla Cina.

Ecco la natura delle cose nel “mondo basato sulle regole” dell’imperialismo. Questo piccolo incidente dice molto della natura della Cina, una potenza imperialista in ascesa che ha molto a cuore la questione di Taiwan, ma anche delle divisioni tra la Germania e gli Usa quando si tratta dei rapporti con la Cina e la Russia. Queste divisioni hanno una base materiale e sono radicate negli interessi del capitale tedesco, dei suoi investimenti esteri e delle sue fonti energetiche.

Svenduti i curdi…

Naturalmente un piatto forte del summit sono state le domande di ingresso di Finlandia e Svezia, che alla fine hanno avuto il semaforo verde da parte della Turchia. Quest’ultimo è stato possibile grazie a un accordo umiliante in base al quale i Paesi nordici hanno preso l’impegno di effettuare un giro di vite sulle organizzazioni curde e dell’opposizione turca che si trovano nei loro territori, estradare coloro che la Turchia considera una minaccia e annullare l’embargo sull’esportazione delle armi alla Turchia. Nonostante tutte le chiacchiere sui diritti umani e i valori democratici, l’accesso della Svezia e della Finlandia è stato possibile grazie a un mercanteggiamento con Erdogan, processo durante il quale i diritti democratici dei curdi (in Turchia e Siria) sono stati offerti a buon mercato sull’altare dell’espansione della Nato. Questi sono i veri valori di un’organizzazione del genere.

Per di più, Erdogan ha ricevuto la garanzia da parte degli Usa che la Turchia verrà inclusa nel programma di potenziamento dei caccia F16, dal quale era stata precedentemente esclusa come sanzione per avere acquistato sistemi di difesa antiaerea russi. E lo spettacolo, già ben poco edificante, potrebbe riservare ancora qualche sorpresa. Subito dopo il summit, con la delegazione svedese ancora in volo verso casa, Erdogan ha insistito che gli accordi prevedevano l’estradizione di 73 suoi oppositori politici. L’obiettivo era umiliare e imbarazzare il governo svedese in pubblico, dando mostra della forza di cui la Turchia dispone in questo momento. Gli svedesi hanno protestato dichiarando che avrebbero dovuto seguire il proprio sistema legale e non potevano dare alcuna garanzia, a cui Erdogan ha risposto che se le sue richieste non verranno soddisfatte non si sarebbe nemmeno preso il disturbo di mettere la proposta per l’allargamento della Nato al vaglio del parlamento turco. Restate sintonizzati…

Qualunque sarà l’esito di questa espansione della Nato, il tipo di questi accordi fra due simpatiche, democratiche, pacifiche e neutrali nazioni nordiche e la Turchia dovrebbe spezzare ogni possibile illusione per cui l’Alleanza starebbe spalleggiando l’Ucraina perché ha a cuore la sovranità nazionale e i diritti democratici delle piccole nazioni bullizzate dai vicini più grandi. La svendita dei curdi, in particolare quelli in Siria, è resa ancora più scandalosa dal fatto che non molto tempo fa sono stati gli alleati degli Usa nella lotta contro l’Isis. Dopo aver servito allo scopo come fanteria di terra, quella che Washington era riluttante a impiegare, sono stati buttati via come fazzoletti usati.

… e massacrati i migranti

In modo non meno disgustoso, la Spagna ha insistito che la migrazione fosse menzionata nel nuovo Concetto strategico come una minaccia collegata alla difesa del fianco meridionale della Nato. La spietatezza di ciò è particolarmente lampante se si tiene conto che il summit si stava svolgendo pochi giorni dopo che almeno 37 migranti erano stati uccisi nel tentativo di oltrepassare la frontiera militarizzata che separa l’enclave spagnola di Melilla dal Marocco. I migranti sono morti soffocati o cadendo dall’alto della recinzione, alta 10 metri, il tutto causato o aggravato dall’intervento della polizia marocchina e spagnola a guardia del confine.

Com’è ovvio, il documento, nel parlare della migrazione come di una minaccia da tenere monitorata, convenientemente ignora tutte le questioni più importanti. Le persone costrette a emigrare e tentare di entrare nella fortezza Europa fuggono da guerre e devastazioni, in molti casi causate dall’intervento della Nato. Altre scappano dalla fame e dalla povertà prodotte dalle potenze imperialiste che fanno parte della Nato. L’alleanza è incapace di risolvere la questione e pertanto trasforma la migrazione in una questione di sicurezza, presentandola come la difesa di “ogni centimetro di territorio alleato”.

Si tratta, non dimentichiamolo, di un governo spagnolo presieduto dal “socialista” Pedro Sánchez, in coalizione con Unidas Podemos (Up), che comprende anche il Partito comunista. Solo un patto fra gentiluomini ha potuto salvare il governo dall’imbarazzo. Dirigenti di Podemos e del Partito comunista hanno preso parte alle proteste contro il summit della Nato, ma in generale entrambe le organizzazioni hanno accettato di tenere un basso profilo. Come per molti altri aspetti, a Up è permesso protestare pubblicamente – ma non troppo – contro le decisioni prese dal governo di cui fa parte, ma senza mai rompere con esso.

La Cina: una sfida per la Nato?

In aggiunta alla guerra in Ucraina, il summit della Nato ha anche discusso di Cina, menzionata per la prima volta nel nuovo Concetto strategico in qualità di “sfida sistemica alla sicurezza euro-atlantica”. Vale la pena citare il documento nella sua interezza:

Le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive della Repubblica popolare cinese (Rpc) sono una sfida per i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori. La Rpc impiega un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per incrementare la propria impronta globale e proiettare la propria forza all’estero, restando opaca riguardo la sua strategia, intenzioni e preparazione militare. Le dannose operazioni ibride e cibernetiche della Rpc, la sua retorica bellicosa e la disinformazione che promuove colpiscono gli Alleati e vanno a detrimento della sicurezza dell’Alleanza. La Rpc ambisce al controllo di settori tecnologici e industriali chiave, infrastrutture critiche, materiali strategici e catene di approvvigionamento. Essa sfrutta le proprie leve economiche per creare dipendenze strategiche e consolidare la propria influenza. Agisce per sovvertire l’ordine internazionale basato sulle regole, anche nei settori spaziali, cibernetici e marittimi. Il partenariato strategico sempre più profondo fra la Repubblica popolare cinese e la Federazione russa e i tentativi sinergici di minare l’ordine internazionale basato sulle regole remano contro i nostri valori e interessi.”

In risposta a queste presunte “sfide” poste dalla Cina, la Nato “potenzierà la nostra consapevolezza condivisa, rafforzerà la nostra resilienza e preparazione, e si proteggerà contro le tattiche coercitive della Rpc e i suoi sforzi tesi a dividere l’Alleanza. Resteremo saldi sui nostri valori condivisi e sull’ordine internazionale basato sulle regole, che comprendono la libertà di navigazione”.

Questa dichiarazione è molto significativa: non dice che la Cina è nemica della Nato, ma ci va il più vicino possibile senza usare quella parola. Il documento, che dovrebbe guidare la strategia della Nato per i 10 anni a venire, è stato adottato a un summit cui erano stati invitati diversi Paesi del Pacifico: la Corea del Sud, il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda. Già questo, di per sé, è una provocazione. Nessuno di questi Paesi si trova nel Nord Atlantico, e la Nato insiste da sempre di essere una “alleanza puramente difensiva” interessata alla protezione comune dei suoi membri. Formulette ripetute anche dal comunicato del summit di Madrid: “La Nato è un’Alleanza difensiva che non costituisce alcuna minaccia per nessun Paese. La Nato resta la base della nostra difesa collettiva e il forum indispensabile per le consultazioni e le decisioni su materie di sicurezza fra gli Alleati”.

Ovviamente è una colossale menzogna. La Nato è un’alleanza militare votata alla difesa degli interessi dell’imperialismo Usa nel mondo. Fu creata dopo la Seconda guerra mondiale per contrastare il Patto di Varsavia, a trazione sovietica, e dopo il crollo dello stalinismo ha avuto il compito di garantire il “nuovo ordine mondiale” di Washington. I Paesi membri della Nato hanno partecipato ad aggressioni imperialiste in tutto il mondo, e la Nato stessa ha scatenato guerre imperialiste contro la Serbia, l’Afghanistan e la Libia, Paesi che non potevano essere sospettati di avere attaccato nessun membro dell’Alleanza.

Leggendo attentamente il Concetto strategico approvato dalla Nato, emerge però la vera natura del conflitto tra gli Usa e la Cina. Quest’ultima viene accusata di sfruttare “le proprie leve economiche per creare dipendenze strategiche e consolidare la propria influenza”. Un’ottima descrizione dell’imperialismo, che si adatta alla perfezione al comportamento delle potenze imperialiste occidentali nella Nato. Che ruolo svolgono il Fmi e la Banca mondiale se non quello di usare le proprie leve economiche per creare dipendenze e consolidare l’influenza delle potenze statunitense ed europee?

Quando la Nato si lamenta che la Russia e la Cina “minano l’ordine internazionale basato sulle regole”, tradotto sta dicendo che “non giocano secondo le regole che abbiamo imposto noi”. Difatti, non esiste nessun “ordine basato sulle regole”. Essendo la principale potenza imperialista sulla Terra, gli Stati Uniti usano le “regole” a proprio vantaggio quando gli tornano comode, e le rompono quando gli stanno strette! La prima Guerra del Golfo del 1991 fu condotta sotto la bandiera degli Stati Uniti (con il voto favorevole dell’Unione Sovietica e l’astensione cinese). La seconda Guerra del Golfo nel 2003 fu invece condotta da una “coalizione dei volenterosi” perché gli Usa non riuscirono a ottenere l’appoggio del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Il diritto internazionale non è che una frode. Gli Stati Uniti e le altre potenze della Nato possono vantare una lunga tradizione di violazioni di sovranità nazionali, dei confini inviolabili degli Stati, e così via. Washington organizza regolarmente interventi militari, colpi di Stato, rimuove governi, ne minaccia altri, rompendo tutte le regole esistenti. Non stiamo parlando solo del passato remoto, ma anche dei tempi più recenti. Finora la Cina, descritta adesso come una “sfida sistemica”, non ha fatto nulla di tutto ciò. Non perché sia uno Stato filantropico, ma perché è una potenza imperialista emergente, che sta solo flettendo i muscoli e non è ancora in una posizione tale da compiere azioni simili.

La questione di fondo è la seguente: la Cina è un Paese capitalista. Ha sviluppato interessi potenti e ambizioni imperialiste. Sfrutta il suo peso economico per controllare mercati, sfere d’influenza, fonti di materie prime ed energia. Lo fa alla luce del sole. La sua “nuova via della seta”, o Belt and Road Initiative, è stata annunciata e promossa pubblicamente da anni. Il problema è che gli interessi imperialisti della Cina collidono con gli interessi imperialisti degli Stati Uniti, e dal momento che la Nato è uno strumento della dominazione imperialista statunitense sui suoi alleati, ciò diventa un problema dell’Organizzazione del Trattato “dell’Atlantico del Nord”.

In effetti, la questione cinese è stata anche discussa al vertice del G7 in Germania, che ha preceduto la riunione della Nato. In quella sede si è tentato di partorire un progetto capace di competere con la Cina alle sue condizioni, attraverso il varo di un piano infrastrutturale di 600 miliardi di dollari. Se si guarda ai dettagli, però, non c’è nulla di nuovo. Ciò che Biden aveva proposto un anno fa col nome di “Build Back Better World” è stato ora rinominato “Partnership for Global Infrastructure”, dopo il disastro del suo programma interno.

Certo, serve avere senso della misura. Gli Stati Uniti restano la principale potenza imperialista sulla Terra. La sua spesa militare è tre volte quella della Cina ed è uguale a quella dei 10 Paesi che li seguono in classifica. Gli Usa detengono una posizione particolarmente potente grazie alle loro istituzioni finanziarie e al dominio del dollaro come valuta di riserva mondiale. Sono in declino solo relativamente alla posizione che detenevano prima. Nondimeno, è chiaro che per loro la Cina è un rivale pericoloso e un concorrente su mercati, fonti di materie prime, campi di investimento e sfere d’influenza.

D’altro canto, la Cina è una potenza imperialista emergente, che ancora si considera tale. Gli investimenti e il commercio sono la leva economica principale di cui fa uso per raggiungere i propri obiettivi. Ha soltanto una base all’estero, a Gibuti, strategicamente posizionata nel golfo di Aden, passaggio chiave tra l’oceano Indiano e il Mediterraneo. Si parla di progetti di strutture militari cinesi presso la base di Ream in Cambogia. Alcuni dei porti attualmente costruiti dai cinesi sulle rotte commerciali dall’oceano Indiano verso l’Europa sono adatti, secondo indiscrezioni, ad un uso civile-militare.

Lo sviluppo cinese si sta però scontrando con certi limiti. Se il suo Pil è secondo solo a quello degli Usa, la Cina è ben più popolosa e presenta enormi disparità regionali. La produttività del lavoro sulla sua costa orientale è piuttosto avanzata, avendo adottato le tecnologie più avanzate, tanto da superare gli Usa in certe zone, ma nell’interno sussistono anche ampie sacche di arretratezza. L’economia cinese, inoltre, dipende fortemente dalle esportazioni, in un momento in cui l’economia mondiale sta arretrando in guerre commerciali e protezionismi. La Cina non può più sostenere i portentosi tassi di crescita annuale che vantava fino a poco tempo fa, dal momento che la sua economia è alle prese con una tipica crisi di sovrapproduzione.

Stiamo dunque parlando di una lotta inter-imperialista tra una vecchia potenza imperialista in relativo declino e una giovane potenza imperialista emergente in lotta per imporre la propria posizione. Gli Stati Uniti la vedono come minaccia principale e da tempo hanno impostato la loro politica sul “fulcro verso l’Asia” (pivot to Asia). Regolando i conti con la Russia in Ucraina, gli Usa si sono resi conto che Putin non potrebbe far valere i propri interessi con tanta tracotanza se non fosse spalleggiato dalla Cina. Al contempo, la Cina stessa sta seguendo con grande attenzione gli sviluppi in Ucraina, domandandosi gli insegnamenti da trarre per i propri interessi in relazione a Taiwan.

Anche sulla questione cinese gli interessi di Washington non sono del tutto corrispondenti a quelli di Berlino-Bruxelles-Parigi. Gli Usa hanno imposto barriere doganali nei confronti della Cina, ma se ne stanno approfittando le aziende europee. Era passata a malapena una settimana dal summit di Madrid che l’azienda europea Airbus dichiarava di aver firmato un accordo di 37 miliardi di dollari per la vendita di aeroplani alla Cina, il più vasto accordo mai firmato in un sol giorno nella storia dell’aviazione. L’accordo è andato a scapito della Boeing, produttrice di aerei Usa, che non ha nascosto l’amarezza: “È deludente vedere che le divergenze geopolitiche continuano a restringere le esportazioni aeronautiche Usa”. Il Global Times, controllato dallo Stato cinese, ha risposto con un editoriale dal titolo: “Boeing è delusa? Non è colpa della Cina”. L’articolo continuava suggerendo a Washington che “la manipolazione politica dopotutto non può trionfare sulla legge del mercato”. Impossibile non apprezzare l’ironia: la Nato accusa la Cina di essere una minaccia al suo “ordine internazionale basato sulle regole”, e la Cina risponde che sono gli Usa a violare le regole del mercato imponendo tariffe protezioniste!

All’inizio dell’anno la Francia ha firmato un accordo con la Cina relativo a progetti infrastrutturali congiunti per il valore di 1,7 miliardi di dollari in Africa, Asia sud-orientale ed Europa dell’est. La cifra non sembra particolarmente sostanziosa, ma è il quarto round di accordi di questo tipo a essere siglato dai due Paesi. Parigi probabilmente cerca di lavorare con la Cina perché teme di essere cacciata a forza dall’Africa francofona, tradizionale sfera d’influenza dell’imperialismo francese.

Come si spiegano accordi del genere alla luce della dichiarazione della Nato che vede la Cina come una “sfida sistemica”? La verità è che benché l’Ue (dominata dal capitale tedesco) non sia in posizione tale da opporsi all’imperialismo Usa, ha comunque i propri interessi imperialistici distinti.

Dietro tutti i sorrisi, le foto di gruppo e i comunicati congiunti, dietro tutte le chiacchiere sull’unità, la verità è che i partner della Nato sono lungi dall’essere uniti. Non lo sono quando si tratta della guerra in Ucraina. Non lo sono in riferimento alla Cina. L’imperialismo significa anche la spartizione e ripartizione del mondo fra le potenze imperialiste, in particolare quando ne emergono di nuove e le vecchie vanno in declino. Questa è l’origine di tutti i generi di conflitti. Per il momento una guerra fra le principali potenze è da escludersi, data l’esistenza delle armi nucleari. Il conflitto fra diverse potenze imperialiste si esprime perciò in modi diversi: guerre commerciali, incidenti diplomatici e, sì, “piccole” guerre locali, come quella in Ucraina e le tante altre in corso in Africa. Sono guerre “piccole” se viste nel quadro generale delle cose, ma che fanno comunque decine di migliaia di morti e milioni di profughi.

A Madrid l’imperialismo occidentale ha indossato la maschera dell’unità, ma in realtà è più diviso che mai.

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